Ma sull’acciaio crescono i fiori?

di Vincenzo Vestita

Ritengo questo periodo dell’anno il più “triste” in cui lavorare in un posto come l’ILVA. In questa valutazione rientrano tutte quelle sfumature, sensazioni e stati d’animo che, sommate tra loro, ti fanno amare o odiare qualcosa. Sarà per il fatto che la sveglia suona così presto la mattina che il sole ci mette ancora un’ora per venir fuori ed il pomeriggio alle 16, quando prendi il pullman per andare dal reparto allo spogliatoio, lo vedi già andare via; sarà per l’autunno inoltrato che ammanta di tinte spente uno scenario cromaticamente composto di tinte spente già di suo; sarà perché in tanti altri lavori riesci a sentire il “profumo” delle festività ma in questo no. Sarà che mai come in questi giorni, ogni anno, desidero che arrivi presto il fine settimana. Per quanto mi riguarda, a fatica e dopo innumerevoli mediazioni con me stesso, sono giunto ad una sorta di compromesso personale tra me e la Fabbrica (quella con la lettera maiuscola) che prevede una sorta di neutralità, una “pace armata”, conscio del fatto di non essere così sfortunato da lavorare, come tanti altri miei colleghi (che non invidio), al chiuso di enormi capannoni per la loro intera vita lavorativa e di poter prestare la mia attività di manutentore in giro per lo stabilimento, in modo da rendere meno uguale a se stesso il lavoro, cercando sempre nel contempo di condirlo con un pizzico di curiosità. Abbiamo quindi deciso, io e la Fabbrica (a detta di chi ci conosce entrambi, due tipi per niente facili), di sopportarci a vicenda.

E anche nell’ILVA, come nella vita, basta che il caso ti permetta di sollevare di qualcosina il tuo punto di osservazione per riuscire a scoprire cose che pensavi non fossero possibili. E a trasformarti una giornata. Nello specifico questo qualcosa mi si è palesato davanti agli occhi i primi giorni di dicembre, in una fredda e limpida mattinata di lavoro. La prima chiamata a “pronto intervento” di quel giorno riguardava la manutenzione e la taratura di un encoder di livello su uno dei gasometri AFO. Questi due gasometri “gemelli”, AFO-A e AFO-B, sorgono proprio davanti il vecchio impianto di Agglomerazione 1 che, insieme al suo tubone altro quasi 200 metri, giace oramai in disuso da vent’anni almeno. Per la verità si era iniziato a smantellarlo verso la metà del decennio scorso (non il tubone, la cui altezza eccessiva probabilmente non avrebbe consentito la sua demolizione controllata in sicurezza così in prossimità dei gasometri e di altri impianti in esercizio), ma un incidente mortale occorso nell’ottobre del 2005 ad un operaio di 47 anni, Giovanni Satta, di Genova, impiegato insieme a una decina di colleghi dipendenti della società ligure SE.PI., ne ha bloccato la dismissione. L’operaio fu investito dal crollo di una parte consistente dell’impianto e ricoperto da travi e pezzi di solaio. E quell’impianto, recintato, è ancora li a rivendicare crudelmente la sua esistenza e a proiettare, insieme allo scheletro dell’Altoforno numero 3 poco distante, una immagine dello stabilimento nel futuro, quando non rimarrà altro che archeologia industriale. Le lamiere rosso ruggine, in parte scrostate e in parte divelte del suo capannone, le finestre in frantumi attraverso le quali si intravede il sistema interno di nastri trasportatori, la giostra di miscelazione esterna e l’impianto che la sovrasta circondati da materiale di risulta; quando uno di questi giganti è morto te ne accorgi immediatamente e l’assenza di rumore e fumi è un dettaglio secondario. Ma questo almeno era quello che avevo sempre visto fino a quella mattina. Dopo aver salito cento e più scalini con la mia fidata “borsattrezzi” (peso circa 15 chili) per accedere al ballatoio di circa un metro che copre la circonferenza dell’intero gasometro, attraverso il quale qualche metro più in là io e i miei due colleghi avremmo avuto accesso allo strumento bisognoso delle nostre amorevoli cure, sono rimasto letteralmente senza fiato. E i cento e più scalini e la fida “borsattrezzi” non erano sul banco degli imputati (almeno per questa volta). Quei 25-30 metri di altezza mi permettevano di guardare il tetto di una porzione di quegli impianti abbandonati da tempo a loro stessi, fatti di lamiera e acciaio, con le scalette alla marinara e il sistema sollevamento a carrucole arrugginiti. Cercavo visivamente conferme in continuazione per credere che della fresca erba avesse potuto ricoprire in buona parte i tetti di quegli impianti. Cavolo! Se c’è la ruggine è ferro… Bloccato li, all’inizio di quel ballatoio, con la bocca aperta come un beota non ci avrò fatto una grande figura agli occhi dei miei colleghi, tanto che dopo qualche secondo un “Menaaa!! Ca fac fridd!” urlato dal caposquadra mi ha riportato alla dura realtà delle cose. Il mio renderli partecipi di quella cosa per me straordinaria non deve aver sortito gli effetti sperati a giudicare dal “Passami le chiavi a brugola” ricevuto in tutta risposta. In ogni caso ero li, a “benedire laicamente” insieme agli altri quell’encoder che non voleva saperne di collaborare e a voltarmi in continuazione per guardarmi quello spettacolo dell’erba che cresce sul ferro e l’acciaio, aiutato da uno straterello di qualche tipo di polvere. Chissà come ci sarebbe stata bene e che grande effetto avrebbe fatto sulle pagine dell’ultimo rapporto Ambiente e Sicurezza presentata appena qualche giorno prima e poche centinaia di metri più in là. A mio modo di vedere ci sarebbe stata meglio di tutto quel verde un po’ posticcio e infilato a forza; per me avrebbe meritato la copertina di sicuro.

Mentre per ultimo scendevo le scale e il sole iniziava finalmente a scaldare un po’ la giornata, scalino dopo scalino ripensavo alla guerra ambientalista in corso a Taranto tra l’azienda dell’acciaio, che dietro grandi cifre a nove zeri vuole quasi “comprarsi” una ecosostenibilità che ancora non ha, e parte dell’ambientalismo che vuole tutto chiuso e ripulito nel più breve tempo possibile, che tanto tra qualche anno la Cina ci inonderà di acciaio a basso costo e ci avrebbe pensato il mercato a far chiudere baracca. Già, la Cina. Nel turbinio di pensieri mi soffermai anche su un articolo che mi colpì molto, letto qualche giorno dopo la morte di Steve Jobs, boss della Apple osannato come innovatore e portatore di progresso in tutto il mondo. Riguardava un reportage sulla Foxconn, la fabbrica di componentistica e assemblaggio che in Cina impiega un milione di operai, tristemente famosa per i suicidi tra i lavoratori, l’utilizzo di solventi altamente dannosi per l’uomo e l’ambiente e le condizioni di lavoro al limite della sostenibilità. Mike Daisey del NYT scrive: “Ho viaggiato nella Cina meridionale e ho intervistato molti operai dell’industria elettronica. Uno di loro aveva la mano destra rattrappita: era stata schiacciata da una pressa metallica in uno stabilimento della Foxconn, dove si assemblano i portatili e gli iPad. Resterà deformata a vita. Quando gli ho mostrato il mio iPad l’operaio è rimasto a bocca aperta, perché non ne aveva mai visto uno acceso. Ha passato la mano sullo schermo ed è rimasto incantato di fronte alle icone che scorrevano avanti e indietro. Poi ha detto al mio traduttore: “Sembra magico”.” La Cina. L’acciaio. Il progresso. Va bene l’acciaio cinese o indiano, purché non si produca “nel mio giardino”. E chi non possiede un telefono di ultima generazione, un tablet o un portatile?

I danni ambientali che la monocoltura industriale ha prodotto sul nostro territorio sono sotto gli occhi di tutti: mitilicoltura e allevamenti in ginocchio, inquinamento diffuso, vivibilità nel nostro territorio fanalino di coda nazionale, insorgenza di patologie tumorali infantili in preoccupante aumento.
Quel tappeto d’erba su quel tetto di lamiera dimostra che l’ILVA non ha bisogno di essere compatibile con l’ambiente; la Natura se ne frega e la compatibilità se la prende in ogni caso, perché ha un tempo virtualmente infinito per ricrearsi un equilibrio. Il nocciolo del problema è sviluppare il progresso dell’uomo senza che questo sia la condanna senza appello per l’uomo stesso. In qualsiasi parte del pianeta l’uomo viva.