di Cosimo Spada
Tutti facciamo sogni e godiamo da pazzi se quel sogno si realizza. Oggi il sogno che tutti facciamo qual è? No. Non è quello di mangiare tanto senza ingrassare. Dai forza fate uno sforzo! Come…? Ma no, cazzo, non è quello di vedere morti tutte le teste di cazzo che conosciamo!!
È trovare un lavoro garantito. Ci voleva tanto? Siete i peggiori lettori che una rubrica possa ritrovarsi; ma considerando che questa è la peggiore rubrica che una rivista si può trovare diciamo che siamo pari.
La questione del lavoro oggi è centrale, lo sappiamo tutti, e il governo tecnico la sta affrontando in maniera egregia (questo è quello che scriverei se vivessi un paese normale, sappiamo tutti qual è la realtà quindi taglio corto).
Ognuno ha il diritto di guadagnarsi il pane quotidiano come meglio crede. C’è chi lo fa con mestieri o professioni comuni come l’artigiano o l’avvocato, oppure con lavori dai nomi strani o poco conosciuti come il segretario di partito o il presidente operaio (ma si può mandare in cassa integrazione un presidente operaio?) oppure il produttore discografico.
Dato che da qualche parte c’è una laurea in giurisprudenza a mio nome, per definire il lavoro del produttore partiamo dal riferimento normativo, precisamente dalla legge 22 aprile 1941 n. 633 che in materia di diritto d’autore definisce il produttore discografico come: “la persona fisica o giuridica che assume l’iniziativa e la responsabilità della prima fissazione dei suoni provenienti da una interpretazione o esecuzione o di altri suoni o di rappresentazioni di suoni”. Se tenessimo fede solo al testo della legge il produttore sarebbe un tecnico che fissa su supporto il suono dei musicisti nello studio. Ma è molto limitato.
Un buon produttore funziona come un allenatore di calcio: ti dà la strategia, dice se devi giocare con la difesa a tre o se è meglio una punta invece di due. Ma in campo ci scendono i vari Buffon Totti e anche qualcuno dell’Inter. Insomma per dirla con le parole di uno dei migliori produttori italiani, Carlo U. Rossi, in una recente intervista su Rock.it, il produttore deve avere la “visione del pezzo”.
La visione del pezzo è quella capacità che dovrebbe avere il produttore, partendo dal materiale che i musicisti gli presentano, di capire e di far capire quale può essere la direzione che dovrebbe prendere per la registrazione dei brani. Non è facile, anche perché si deve instaurare tra le due parti il giusto feeling; pensate a Red Hot Chili Pepper, prima di trovare il giusto feeling con un produttore hanno dovuto aspettare il loro quinto album e di incontrare uno come Rick Rubin, uno dei migliori produttori di sempre.
Oggi l’importanza dei produttori è diventata cruciale, basti vedere quello che succede nel rap e nel r’ n’ b, anche perché molti artisti non posseggono la giusta lucidità per capire la direzione da dare al proprio sound.
Un produttore che mi sento di segnalarvi è Mark Ronson. Che detto così la vostra domanda sarebbe: “Chi cazzo è?”
Ma se vi dico che è il produttore principale di Back in Black di Amy Winehouse già qualcosa cambia. Ebbene sì è proprio lui. Per spiegare il suo stile di produzione oltre che all’album della Winehouse aggiungo All You Need Is Now dei Duran Duran. Questi due album spiegano perfettamente i mondi sonori in cui si muove Mark Ronson da una parte le sonorità analogiche del periodo 60/70 che Ronson è bravo anche a sfruttare quando fa il produttore rap, dall’altra il mondo sonoro sintetico degli anni 80 che lo porta a produrre una delle band principali di quel periodo in maniera tanto fedele ai loro dischi iniziali da non riuscire quasi a riconoscere la differenza tra nuovo e vecchio.
Personalmente l’album che apprezzo di più, anche per affinità con quelle sonorità, prodotto da Ronson è Arabia Mountain dei Black Lips, uscito nel 2011.
Per spiegare al meglio l’apporto di Mark Ronson è necessario fare un confronto con un loro album precedente, ho scelto Good Bad Not Evil del 2007. Come ha dichiarato anche Ronson in una intervista su Rolling Stones, non voleva stravolgere il sound classico dei Black Lips, ed infatti non lo fa. Ma la dove in Good Bad Not Evil si sente una grande energia che in certi momenti straripa, in altri, come nella fenomenale O Katrina!, mentre in altri cede come in Slime and Oxigen. In Arabia Mountain invece questa energia è più controllata, dosata ed indirizzata in maniera tale che tutta la band ne benefici. Ronson conosce bene la storia dietro quel sound è sa come renderlo credibile; come nel pezzo di apertura Family Tree dove a supportare la chitarra ritmica inserisce un sax, che nelle garage rock degli anni 60 era sempre presente, oppure in Bone Marrow dove partendo da una batteria molto twist piano piano si affiancano gli altri strumenti, compreso un theremin, fino a che tutti insieme vanno a comporre una perfetta canzone rock n’ roll. Oppure, infine, Bicentennial Man, il titolo rimanda ad un racconto di Asimov, dove la chitarra solista richiama perfettamente le chitarre di gruppi come i Sonics.
Alla fine resta da porsi la fatidica domanda. No, la domanda non è perché non ho uno straccio di appuntamento da mesi, ne riparleremo comunque. No, la domanda è quanto conta alla fine il produttore nell’economia di un disco, pesa o non conta molto?
Una buona risposta ce la dà sempre Carlo U. Rossi nella intervista che ho citato prima eccola: “E’ sempre merito dell’artista. Non lo dico per paraculismo, ma è sempre merito suo: sia se ha la forza di accettare le mie proposte con una certa apertura, sia che abbia la forza di imporsi. Solitamente propongo una cosa tre volte, se alla terza non gli entra lascio perdere. Io posso avere la visione di un pezzo ma è lui che ci mette la faccia, è lui che ogni volta si gioca la vita, perché ogni disco per loro è una roba epica, ne va della loro carriera.”
Amen.
Mentre scrivevo questo pezzo ascoltavo:
Nick Cave & Grinderman, Grinderman, 2007