Racconti dalla grande fabbrica, quella di ieri e quella di oggi

di Gaetano De Monte

Negli stessi giorni in cui si discute della riforma della legislazione del lavoro presentata al Parlamento e alle parti sociali da Elsa Fornero, dal 16 novembre 2011 Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel Governo Monti – una riorganizzazione dell’intero impianto del diritto del lavoro che sembra diventare funzionale all’obiettivo di rendere l’occupazione ulteriormente flessibile, così come lo sono i capitali –, a Taranto tantissimi operai Ilva scendono in piazza per difendere il posto di lavoro, “messo in pericolo” – a loro dire –  dai movimenti ambientalisti che reclamano un futuro migliore per la città, e dalla magistratura che ha aperto un’inchiesta a carico di  Emilio e Nicola Riva, padre e figlio, proprietari dello stabilimento siderurgico tarantino, di Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, e Angelo Cavallo, responsabile del reparto Agglomerato 2, accusati di disastro ambientale relativamente alle emissioni di diossina da parte dello stabilimento Ilva di Taranto, avvelenamento colposo di sostanze alimentari e getto pericoloso di cose.

Il nostro modo di raccontare una protesta che – ad avviso di chi scrive – ha perlomeno del paradossale,  è stato quello di chiedere a due generazioni presenti in fabbrica di spiegare il rapporto tra la classe operaia e quel  mostro marrone scuro, quell’enorme mantello di ruggine che si estende per 1500 ettari,  che sforna ogni anno buona parte dell’ acciaio prodotto in Italia ogni anno.

Lo abbiamo chiesto a Fabrizio, 30 anni, un terzo dei quali trascorsi a lavorare all’Ilva. Ha seguito le orme del padre, che in quello stabilimento, quando era statale, ci ha lavorato trenta anni. Fabrizio, “la giovane forza che muove l’acciaio”, vi lavora dal 2002, durante i quali la proprietà dello stabilimento siderurgico è sempre stata quella di Emilio Riva e figli.

Descrive però, “un rapporto con la fabbrica che in questi dieci anni di lavoro nell’Ilva, è mutato.

Cambiamenti vissuti nel rapporto con la proprietà, con i sindacati e anche con i colleghi stessi: all’inizio del mio rapporto di lavoro nel 2002, la fabbrica era vissuta con più serenità. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, sarà anche per la pressione della questione ambientale, si percepisce invec, un senso distacco tra lo stesso capo turno e l’operaio: c’è una repressione che non aiuta a lavorare; c’è un distacco che sembra essere stato costruito ad arte. Addirittura nei mesi scorsi vi sono stati casi di capiturno trasferiti perché accusati di avere rapporti cordiali con i sottoposti.

Ne succedono di cose strane e spesso inspiegabili all’Ilva di Taranto… Basti pensare a quanto avvenne nel 2008, quando per due mesi consecutivi percepimmo dei premi di produzione legati al raggiungimento di risultati prefissati dall’azienda, e pochi mesi dopo molti di noi furono messi in cassa integrazione e parallelamente l’azienda si trovò con grandi quantità di scorte di lamiere e tubi invenduti. Un trucco per vendere il prodotto alla stessa identica maniera e risparmiare i costi di manodopera per circa tre-quattromila persone.

Rispetto al passato, poi, si percepisce una notevole repressione in fabbrica e i dirigenti fanno largo uso di rapporti disciplinari, molto spesso immotivati. A volte ci si trova di fronte a vere e proprie violazioni di diritti. Come quando si chiedono ferie a copertura straordinaria che non ti vengono concesse e senza alcun motivo.

All’Ilva di Taranto, come del resto in tante altre fabbriche italiane, si verificano, dunque, situazioni che violano le regole minime della democrazia nei luoghi di lavoro, ed avvengono “giochetti” ed inadempienze, che dalle parti della  Antica Via Appia  non sono certo una novità. Come quando, nel 1997, solo due anni dopo l’acquisto dello stabilimento, allora ancora pubblico, da parte di Emilio Riva, cognato dell’allora presidente del consiglio Lamberto Dini; all’Ilva fu creato il reparto confino noto come Palazzina Laf. Sessanta dipendenti rei di aver rifiutato la novazione del contratto di lavoro, la dequalificazione professionale, da impiegati a operai, finirono in un enorme e squallido capannone battezzato Laf (Laminatoi a freddo): pagati per non far nulla, confinati per giorni settimane, ed alcuni anche per mesi, per aver disobbedito al padrone. Per quella vergognosa vicenda i giudici della Corte di Appello di Lecce in secondo grado condannarono Emilio Riva ad un anno e dieci mesi di reclusione, ed altri dirigenti, tra cui “l’onnipresente” Luigi Capogrosso ( un anno e sei mesi) a pene comprese tra i diciotto e i quattro mesi. Non un semplice caso di mobbing, anzi sono proprio i giudici a scrivere nella sentenza che si è trattato di un caso di bossing, da boss, cioè capo, padrone, che consiste in una “ vera e propria strategia aziendale volta a ridurre il personale o a eliminare dipendenti non graditi”. Un comportamento criminale, quello dei vertici aziendali, che ha comportato, negli operai che lo hanno subito, danni permanenti: disturbi del sonno, idee suicide, forte aggressività, come ebbe modo di dichiarare la psichiatra Marisa Lieti che li ebbe in cura.

Di “lager” parlò il procuratore Franco Sebastio, di vere e proprie torture potremmo scrivere. Situazioni gravissime, continua poi Fabrizio, “che tendono a verificarsi anche per la completa assenza degli organismi sindacali; da tre mesi in fabbrica di loro non vi è neppure l’ombra. Neppure una presenza simbolica. Il sindacato oggi è in completa difficoltà, incapace di rispondere alle domande di sicurezza sul lavoro e dignità che provengono dall’interno di quelle ciminiere. Forse perché anch’esso ostaggio del potere padronale o semplicemente perché incapace di rappresentare al meglio le istanze legittime dei lavoratori del nostro stabilimento. Certo è, che la debolezza attuale della rappresentanza sindacale in Ilva l’ho vissuta sulla mia pelle. Un po’ di tempo fa c’era una vertenza aperta con l’azienda per la questione cambio tute.

In pratica si vive una una situazione paradossale per cui si è costretti a rimanere in fabbrica un’ora e mezza in più delle otto ore previste da contratto nazionale per  cambiarsi – infatti, poiché non si può entrare ed uscire dalla fabbrica con la tuta, si deve arrivare prima ed uscire dopo dallo stabilimento. Un tempo di lavoro che non viene retribuito e su cui il sindacato, nel corso della vertenza che ci ha visti opposti all’azienda, ha rivelato un atteggiamento più che morbido. Una contesa che si era aperta con una proposta di conciliazione da parte del sindacato, attraverso un riconoscimento di cinque euro l’ora, pari comunque al 70% della retribuzione di un ora di lavoro, e a seimila euro di arretrati, e che si è chiusa a un euro e novanta e a poco meno di duemila euro di arretrati. E non si tratta qui di una semplice rivendicazione economica. Ma di una questione di dignità. Vatti a fidare poi di questi sindacati… Sono stato deluso anche dalla Fiom, che dovrebbe essere, se non altro per storia, quello più vicino agli operai.

Attualmente non ho la tessera del sindacato. Sembrerà strano forse, ma ho scelto di autorappresentarmi nel rapporto con la proprietà. I miei problemi con l’azienda ho imparato a risolvermi direttamente con il mio capo del personale. Per il resto, potrei cedere su tutto di fronte ad un ricatto occupazionali che effettivamente esiste, eccome se esiste, ma non perderei mai la dignità.

La stessa, che forse sta mancando a quegli operai che, in larga misura strumentalizzati dalla proprietà, si scagliano contro quella parte ampia di Città che ha compreso che nella nostra Costituzione c’è un diritto, quello alla salute, che non ammette limitazioni e ricatti.

Elvio, invece, ha 58 anni, è entrato in fabbrica nel 1969, l’anno dell’autunno caldo e della strage di piazza Fontana. Comincia come apprendista a quattordici anni.

Allora il rapporto tra gli operai e  la stessa fabbrica era più umano: se si aveva un problema anche non di lavoro si poteva chiedere aiuto ai colleghi; e a volte accadeva anche che la direzione della fabbrica si prestava ad aiutare operai in difficoltà. Dal 1995, l’anno della privatizzazione, tutto è cambiato, anche il rapporto tra i colleghi. E’venuta a mancare quella solidarietà di fondo che derivava dal sentirsi operai, parte di un tutto. Quando si scioperava si era in tanti, uniti, e lo stabilimento si fermava letteralmente.

Oggi, invece, si “sciopera” con la feria pagata dall’azienda… andando tra l’altro contro i propri interessi: quello di lavorare in un ambiente di lavoro sicuro… e salubre, oltre che quello di non veder ammalare i propri figli.

Ciò che è successo il 30 Marzo ha certificato il declino definitivo  della classe operaia a Taranto. Un declino che in Italia è iniziato nel 1980, quando settimane di scioperi degli operai e di blocco della fabbrica, furono vanificati dalla marcia dei 40000 quadri che davanti a Mirafiori chiedevano la riapertura dello stabilimento Fiat. Quella manifestazione degli operai a difesa della proprietà ha ricordato quel momento e, cosa ancor più grave,  a differenza di Mirafiori, quando a scendere in piazza furono i quadri, oggi sono state le tute blu, certificando la fine definitiva di quella coscienza  che un tempo univa la classe operaia.  Intanto, un sindacato “molle” continua a fare accordi a ribasso con il padrone. Logico che Riva continui a speculare sulla pelle dei lavoratori non trovando nessuna resistenza di alcuno tipo. Trovando solo pecore al soldo del padrone, come è avvenuto oggi.  La dura e cruda realtà è che oggi all’operaio non interessa più difendere quelle conquiste ottenute dalla mia generazione attraverso un decennio di lotte. A Taranto, in particolare, c’è stata una corsa dell’operaio allo status symbol: il macchinone e la casa da nababbi. Dai primi anni ‘90 ad oggi, il mito dell’emancipazione è passato solo attraverso conquiste materiali, piuttosto che tramite la conquista dei diritti. La classe operaia, o almeno una parte consistente di esso, ha perso la dignità.

Si registra una mancata sindacalizzazione tra i lavoratori Ilva che va tutta a vantaggio della proprietà. Assisto con tristezza allo smantellamento delle nostre conquiste. Avvenute attraverso lotte decennali.  Lontanissimi sembrano i tempi in cui, parliamo del 1985, Bettino Craxi annunciò di voler chiudere la fase della scala mobile – l’adeguamento cioè dei salari al costo della vita – e l’intero stabilimento si fermò. Una cosa impensabile oggi, se si pensa che nei giorni scorsi è passato nel più completo silenzio in fabbrica lo smantellamento dell’articolo 18.

Il sindacato dovrebbe naturalmente dar voce a questo silenzio, ma spesso non lo fa. Perché?

Perché vi sono troppe collusioni evidenti con il potere padronale. Si pensi soprattutto alla Uilm, un vero e proprio sindacato “giallo”. Ma sono soprattutto personali le complicità. Tralasciando per un attimo il ruolo del sindacato, si ricordi come emblematica di contraddizioni  la figura di Walter Scotti (portavoce dei Verdi di Taranto negli anni ‘90 e poi diventato strenuo difensore dell’Ilva).Non credete alle fantasticherie di alcuni ambientalisti catastrofisti, che hanno tutto l’interesse a mettere in cattiva luce l’unica realtà produttiva della regione”, ebbe addirittura modo di dichiarare  il “prezzolato” uomo di Riva, qualche anno fa in seguito ad un’inchiesta dell’Espresso.

Elvio ha 58 anni. E’uscito da quell’inferno nel 2000. Usufruendo della cosiddetta “legge sull’amianto”, che consentiva agli operai di andare in pensione anticipatamente riconoscendo loro, per ogni decennio di lavoro effettivo cinque anni di abbuono.

Prima di chiudere la conversazione, sia Elvio che Fabrizio, trent’anni di differenza tra di loro, due generazioni di operai a confronto, sentono di dover dare il medesimo consiglio a quel numero impressionante di operai che hanno manifestato venerdì, strumentalizzati dalla proprietà: un invito a riprendersi la dignità, perché se c’è qualcosa che più di ogni altra Emilio Riva e figli hanno tolto a questa città e alla sua classe operaia, è proprio la dignità, nel mondo del lavoro e nella fabbrica, quella conquistata in tanti anni di lotte dai padri, ed in misura minore anche dai loro figli. E alla Città di riprendersi quel  futuro, che per Taranto è tutto  da costruire.

6 Comments

  1. Anonimo Aprile 2, 2012 5:58 am 

    Non mi ritrovo nelle parole dell’operaio che dice che si subiscono pressioni e vessazione da parte dei api turni, forse io sono fortunato…sugli altoforno non funziona cosi’

    • Anonimo Aprile 2, 2012 12:04 pm 

      Leggendo attentamente quest’articolo penso alla mia storia in ILVA e trovo quest’articolo non corrispondente al vero. Molte delle notizie e delle interviste sono infondate e non veritiere, in riferimento alle voci che vengono diffuse su pressioni legate alla manifestazione del 30 Marzo, a nessuno li è stato imposto di manifestare.

  2. Anonimo Aprile 2, 2012 1:36 pm 

    Anche io in netto disaccordo,molte volte esperienze del tutto personali e negative non coincidono per nulla a veritá e non meritano di essere generalizzate,anzi diró di piu….gente vagabonda che meriterebbe di stare a casa k’azienda gli da ancora la possibilitâ di stare su un posto di lavoro,mi dispiace fabrizio ma parla per te

  3. Anonimo Aprile 2, 2012 2:58 pm 

    voi che non siete d’accordo identificatevi”capiturno e capireparto”…

  4. Anonimo Aprile 2, 2012 3:05 pm 

    Il termine “sottoposti” utilizzato per definire il rapporto tra operai e capiturno la dice tutta sulla dignità persa dai lavoratori. Ho lavorato trenta anni nello stabilimento ai tempi in cui l’azienda era a partecipazione statale e non mi sono mai sentito un sottoposto di nessun capo : avevamo ruoli diversi e ciascuno svolgeva i propri compiti rispettando quelli dell’altro. Certo oggi i sindacati sono più deboli, ma la forza gliela devono dare i lavoratori !!!
    All’ultimo sciopero hanno aderito non più di 300 persone,
    alla manifestazione precedente organizzata dai sindacati hanno partecipato non più di 2000 persone, mentre a quella “autonoma” (in cui la proprietà ha cosentito di lasciare il posto di lavoro) hanno partecipato in 7000 !!

  5. Anonimo Aprile 26, 2012 5:15 pm 

    Anche io non mi riconosco nell’articolo qui sopra. La mia esperienza personale in ILVA, per quanto il sottoscritto non abbia mai messo piede in ILVA, dice l’esatto contrario.

    Questa è la dimostrazione, piuttosto banale, di come qualunque cazzone possa mettersi dietro una tastiera e dire tutto e il contrario di tutto. Cordiali saluti.

    Ps. Se mi firmo “Emilio Riva” qualcuno magari ci casca…

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