Pubblichiamo un estratto dell’intervento tenuto dal prof. Guglielmo Forges Davanzati, economista dell’Università del Salento, al Convegno “Eur-Hope?” – Bari 26 settembre 2015.
Questa relazione prova a rispondere a questa domanda: come interpretare il dato secondo il quale nei Paesi nei quali i salari sono più alti è più alto il tasso di crescita della produttività del lavoro? La Figura in basso mostra inequivocabilmente che il costo del lavoro per unità di prodotto è maggiore dove i salari sono più bassi, con riferimento ai Paesi dell’Eurozona.
Il dato può essere interpretato facendo riferimento alla c.d. “seconda Legge di Kaldor”, che stabilisce che al crescere della domanda aggregata aumenta il tasso di crescita della produttività del lavoro. Ciò accade per l’operare di numerosi meccanismi, fra i quali l’operare di effetti di apprendimento e l’aumento dell’utilizzo della capacità produttiva che si rende necessario e conveniente laddove aumenta la domanda.
Il caso italiano è emblematico dell’operare in senso inverso di questo effetto. Si mostrerà che i) le politiche di moderazione salariale esercitano effetti di segno negativo sul tasso di crescita ii) esercitano effetti pressoché nulli sulla dinamica delle esportazioni; iii) hanno il solo effetto di accrescere il tasso di disoccupazione, in particolare giovanile.
1) La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica. Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[1]. Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e, soprattutto in un contesto di restrizione del credito, le pone nelle condizioni di non poter investire e, dunque, di non poter accrescere le loro dimensioni. Terzo: poiché all’aumentare delle dimensioni d’impresa, per l’operare di rendimenti crescenti, la produttività del lavoro aumenta, da ciò segue che la riduzione della domanda ha effetti negativi non solo in via diretta sull’occupazione, ma anche in via indiretta, “dal lato dell’offerta”, sul tasso di crescita produttività[2]. Come documentato dall’Istat, il grado di internazionalizzazione delle imprese italiane è relativamente basso e, soprattutto, le imprese italiane presenti sui mercati internazionali sono quasi esclusivamente imprese di grandi dimensioni. Il che evidenzia il fatto che politiche che non favoriscono la crescita dimensionale delle imprese sono destinate a controbilanciare il possibile (e incerto) effetto di aumento delle esportazioni derivante dalla moderazione salariale (v. infra).
2) La riduzione dei salari e la compressione dei diritti dei lavoratori tende ad associarsi a una bassa dinamica della produttività del lavoro. L’evidenza empirica, con riferimento all’Italia, mostra che quanto più si è reso flessibile il mercato del lavoro, tanto più si è registrato un rallentamento del tasso di crescita della produttività. Come è stato rilevato[3], infatti, il tasso di crescita della produttività del lavoro ha cominciato a ridursi in modo rilevante proprio a seguito dell’approvazione del c.d. pacchetto Treu e della c.d. Legge Biagi. E’ verosimile che ciò sia dipeso, oltre che dalla modesta dinamica degli investimenti e dalla sostanziale assenza di innovazioni, dal verificarsi di un effetto di ‘scoraggiamento’. Effetto a sua volta derivante dalla bassa gratificazione derivante al lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento[4]. In tal senso, le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività[5].
Si osservi che si tratta di un fenomeno soggetto a irreversibilità, dal momento che la riduzione dei salari deteriora la qualità della forza-lavoro in un orizzonte di lungo periodo[6]. Più bassi salari oggi implicano, infatti, minori possibilità di spese per istruzione, sanità, riduzione del tasso di natalità (e conseguente invecchiamento della popolazione), con effetti di segno negativo sulla produttività futura. In altri termini, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre può risultare conveniente per la singola impresa e nel breve periodo, risulta controproducente per la collettività delle imprese, e risulta controproducente nel lungo periodo. Non solo per le imprese, ma anche, e soprattutto, per le prospettive di crescita dell’economia italiana.
Su Fonte AMECO, si rileva che i) la caduta della quota dei salari sul Pil si è manifestata con la massima intensità in Italia; ii) l’Italia è il Paese che ha fatto registrare la più rilevante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro nel periodo considerato rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona.
3) Si ritiene che le politiche di moderazione salariale siano necessarie per accrescere la competitività delle nostre imprese nel commercio estero. Uno studio recente della Commissione Europea, dal titolo “Labour costs pass-through, profits and rebalancing in vulnerable Member States”, sembra, tuttavia, almeno parzialmente smentire l’opinione dominante (e quella della Commissione stessa), ponendo in evidenza che, in particolare nei c.d. Paesi periferici dell’Eurozona (Italia inclusa), le politiche di deflazione salariale hanno generato il solo effetto di accrescere i margini di profitto, con risultati pressoché insignificanti sull’andamento delle partite correnti. La Commissione Europea imputa questo effetto all’eccessiva tassazione degli utili d’impresa, che impedirebbe più rilevanti contrazioni dei prezzi dei beni esportati. L’Istat rileva un miglioramento del saldo delle partite correnti[7], a fronte di un aumento del tasso di disoccupazione di circa due punti percentuali nel trascorso biennio e di una flessione delle ore lavorate, attestando che non vi è alcun automatismo che garantisce che un incremento di esportazioni si traduca in un aumento dell’occupazione interna.
Il punto in discussione è se la riduzione dei salari monetari implichi la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto fra salario e produttività del lavoro), dal momento che la competitività può aumentare solo a condizione che, a fronte di una riduzione dei salari, la produttività cresca o almeno rimanga costante, a parità di tasso di cambio. Ma, quantomeno nel caso italiano, le cose non stanno così.
Vi è di più. Come registrato da Bankitalia, le esportazioni italiane dipendono in misura marginale dalla competitività di prezzo. Dipendono semmai in modo significativo dalla qualità del prodotto (per le esportazioni di beni della filiera agroalimentare) e da “effetti di Veblen” – per i quali a prezzi elevati corrisponde una domanda elevata – per le esportazioni di beni di lusso.
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Il principale esito delle politiche di moderazione salariale è il drammatico incremento del tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile.
L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin da 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti.
A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico (per la perdita di reddito dell’unità familiare) sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati. Non dovrebbe essere trascurato il fatto che l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità. Il punto in discussione riguarda il fatto, ben noto, che le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle. Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori che sono alla base dell’azione sindacale. In questa dinamica, ha buon gioco il Governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: la proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia.
Uno studio recente del Fondo Monetario Internazionale mostra che la riduzione della union density nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive. E aggiunge che le crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta, sono alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai Paesi industrializzati negli ultimi decenni. La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile.
Guglielmo Forges Davanzati
[1] Costituendo una concausa della deflazione in corso. V. G.Forges Davanzati, Attenti alla deflazione. E a come la si vuol fermare, Micromega on line, 29 agosto 2014.
[2] Cfr. N. Kaldor, The irrelevance of equilibrium economics, “The Economic Journal”, 1972, vol.82, pp.1237-1255..
[3] P.Pini, Produttività e regimi di protezione del lavoro, “Keynesblog”, 20.5.2013.
[4] Come scriveva Francesco Saverio Nitti, quando sono pagati poco e le ore di lavoro sono eccessive, “gli operai hanno il cuore in sciopero”. V. F.S.Niti, I problemi del lavoro, prolusione al corso di Economia Politica fatta il 4 dicembre 1893 all’Università di Napoli, in “Estratto della nuova rassegna”, 1893.
[5] La modesta crescita della produttività del lavoro in Italia è anche imputabile alle politiche di destrutturazione dei servizi di Welfare, con particolare riferimento all’accesso alla scolarizzazione e ai servizi sanitari. E’ del tutto evidente che individui istruiti e in buone condizioni di salute sono potenzialmente più produttivi di individui poco scolarizzati e in cattive condizioni di salute. I processi di privatizzazione messi in atto, in particolare, nell’ultimo ventennio hanno contribuito a ridurre la quantità e la qualità di servizi pubblici e, per questa via, a ridurre il potenziale produttivo dei lavoratori. Ciò è accaduto in un contesto di crescente invecchiamento della popolazione, e dunque in un contesto nel quale – anche per il solo obiettivo di non generare riduzioni di produttività – sarebbe stato necessario ampliare e riqualificare i servizi di Welfare, con particolare riferimento all’assistenza sanitaria.
[6] Come scriveva Marx, “il capitale, che ha così «buoni motivi» per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che lo circonda, nel suo effettivo movimento non viene influenzato dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di uno spopolamento incontenibile […]. Ciascuno sa […] che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare, ma ciascuno spera che il fulmine cada sulla testa del suo prossimo non prima che egli abbia raccolto e portato al sicuro la pioggia d’oro”. La violazione dei limiti morali e fisici di lunghezza della giornata lavorativa “non dipende […] dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo. La libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo” (Marx, Il Capitale, Editori riuniti, Roma 1980, p. 300).
[7] Miglioramento principalmente imputabile all’aumento delle esportazioni di automobili intra-UE. Si può osservare che le esportazioni di automobili da parte della Germania sono sempre più indirizzate verso gli Stati Uniti e la Cina. Il che sembrerebbe suggerire che le imprese italiane si sono avvantaggiate della riduzione delle quote di mercato delle imprese tedesche nell’eurozona.