Il punto di vista dei “fuorisede”

di Salvatore Romeo (’84)

Come rilevato da Stea, la popolazione giovanile a Taranto ha subito un tracollo nel corso dell’ultimo decennio. Tale dinamica è strettamente legata alla cosiddetta “fuga dei cervelli”. Ci si interroga spesso su questo argomento, ma raramente si cerca di cogliere il punto di vista dei “fuorisede”. E allora perché non provare a lanciare una traccia di lavoro? Abbiamo così elaborato un questionario, che è stato sottoposto a 53 giovani originari di Taranto e provincia residenti in altre città d’Italia. Il campione non è stato selezionato sulla base di criteri specifici, per cui la ricerca non ha valore scientifico. Essa tuttavia può servire per iniziare a comprendere ciò che spinge i giovani tarantini a lasciare il proprio territorio.

Definizione del campione

La maggior parte delle 53 persone che hanno risposto al sondaggio studiano (36), gli altri lavorano (12) o cercano lavoro (5) [vedi grafico]. Quasi tutti sono fuori da almeno più di un anno (48), di questi una componente significativa (23) da oltre cinque anni[v.g.]. Si tratta quindi di un campione di fuorisede “di lungo corso”, persone che hanno ormai stabilizzato da tempo la propria condizione di emigrati. La maggioranza degli intervistati ha scelto di vivere in un luogo relativamente lontano: 36 sono quelli che attualmente risiedono a una distanza superiore a 500 km. dal territorio d’origine (fra questi i più, 26 persone, fra i 500 e i 1.000 km.); in tutto 17 sono quelli che invece vivono a una distanza inferiore ai 500 km[v.g.]. I fuorisede interrogati risiedono dunque prevalentemente nel centro-Nord.

Cause dell’emigrazione e rapporto col contesto d’origine

Iniziamo a vedere quali sono i giudizi di queste persone a proposito dell’emigrazione. Le due cause principali che le hanno spinte ad allontanarsi dalla nostra provincia sono l’assenza di corsi di laurea adeguati alle inclinazioni personali e la mancanza di stimoli dell’ambiente circostante. Solo dopo viene l’assenza di prospettive professionali e per ultimo è considerata la voglia di provare un’esperienza nuova lontano da casa.[v.g.] Alla base della scelta di emigrare viene posta dunque la povertà dell’ambiente culturale della nostra provincia (vedremo più avanti che la cultura è un argomento molto sentito da questo piccolo gruppo).

Tuttavia l’emigrazione non è considerata come un esito irreversibile. La maggior parte si mostra indecisa alla domanda “se nel tuo territorio di origine ci fosse stato il corso di studi/lavoro che ti piace saresti rimasto/a?” (il 40% risponde “forse”, mentre i “no” e i “sì” quasi si equivalgono, con una leggera prevalenza dei primi: 32 contro 28%)[v.g.]; ma i “sì” prevalgono (48%) quando si chiede “se in questo momento si creassero le condizioni favorevoli saresti disposto/a a ritornare?” (i “forse” seguono al 29%, mentre i “no” crollano al 23)[v.g.]. Parrebbe che l’emigrazione venga intesa come un passaggio provvisorio, legato a particolari necessità (anzitutto formative e “culturali” in senso ampio). Una volta soddisfatte queste esigenze si reclama la possibilità di tornare – naturalmente se le condizioni lo permettono.

A rispondere in questo modo non sono persone che denunciano problemi d’inserimento nei contesti dove risiedono. Anzi, più dei tre quarti del campione (77%) si dichiara abbastanza (52%) o molto (25%) integrato nelle realtà in cui vive la maggior parte del suo tempo[v.g.]. Questo dato sembrerebbe confermato dalla frequenza con cui si fa ritorno al territorio d’origine. La maggior parte degli intervistati non torna frequentemente (il 60% in tutto), di questi il 36% dichiara di tornare solo in occasione delle feste; soltanto il 38% afferma di “rimpatriare” spesso (21%) o appena può (17%)[v.g.]. Inevitabilmente su questi risultati gioca il fattore distanza, dal momento che presso il campione considerato prevalgono mete relativamente “lontane”. Tuttavia tale situazione non determina un progressivo distacco dal contesto d’origine.

L’attività sociale e politica

La metà delle persone intervistate (in realtà il 51%) prima di emigrare svolgeva una qualche attività sociale o politica[v.g.]; l’attività di alcune di loro si è invece affievolita a distanza di tempo e nel nuovo spazio di vita (il 58% degli interpellati dichiara di non essere più attivo socialmente o pubblicamente)[v.g.]. Restano attivi prevalentemente i soggetti che si occupavano di politica o associazionismo (la quota sul totale passa rispettivamente da 32 a 40% e da 35 a 38%)[v.g.], mentre il distacco più significativo riguarda il campo del volontariato[v.g.]. Evidentemente la forma più “concreta” di impegno – quella che chiama in causa dinamiche di relazione e di cura molto intense – risente più di altre del distacco da un certo contesto e della conseguente dispersione di legami.
Tuttavia, il relativo affievolimento dell’attività sociale o politica non determina il venir meno dell’attenzione nei confronti delle vicende pubbliche e politiche del contesto d’origine. Il persistente legame che si è prima messo in luce è confermato dalla percentuale di persone che dichiara di essere abbastanza o molto interessata alle faccende pubbliche locali.[v.g.] Questa resta stabile attorno ai tre quarti degli intervistati anche ad emigrazione avvenuta[v.g.].
Ancora più significativo il dato relativo alla partecipazione elettorale. Se il 64% dichiara di aver votato alle precedenti elezioni per il sindaco[v.g.], il 68 dice di averlo fatto nell’ultima tornata (presumibilmente le regionali dell’anno scorso)[v.g.] e ben il 72% prevede di andare a votare alle prossime comunali. Si conferma quindi un legame crescente con la realtà d’origine[v.g.].
Questo attaccamento prescinde completamente dal grado di fiducia nei confronti della politica locale, riguardo alla quale si esprime un giudizio negativo abbastanza netto: il 62% la considera mediocre (25%) o pessima (37%) (della restante parte, il 25% esprime un giudizio di sufficienza, mentre solo il 13% la considera “buona” e nessuno “ottima”!)[v.g.]. Tale giudizio sembra però dettato da una generale sfiducia nei confronti della politica: un terzo degli intervistati non vede differenze fra il livello nazionale e quello locale, mentre i restanti due terzi si dividono quasi perfettamente fra chi pensa che la politica locale sia migliore e chi invece la considera peggiore di quella nazionale[v.g.].

Problemi del territorio e prospettive per i giovani

Ma quali sono i principali problemi del nostro contesto secondo i fuorisede? Sopra ogni altra cosa troviamo la situazione ambientale, seguita dalla cultura e dal lavoro, posti quasi sullo stesso piano. L’allarme è invece molto meno sentito a livello della socialità. [v.g.] Prescindendo dalla sensibilità per l’ambiente – che caratterizza ormai buona parte della società tarantina, come molte ricerche dimostrano –, la preoccupazione per lo stato della cultura e dell’occupazione sembra confermare quanto già detto: alla base della migrazione c’è un’esigenza di apertura al mondo esterno che si può spiegare con la relativa arretratezza del nostro contesto culturale – e in misura minore con la giovane età di chi intraprende quel percorso (una sorta di “rito di iniziazione”); ma a rendere cronico l’allontanamento è l’assenza di prospettive professionali.
E’ quindi inevitabile che alla domanda “quanta importanza ritieni si dia ai giovani nel tuo territorio di origine?” l’89% risponda con “poca”(55%) o “nulla”(34%), mentre la restante parte la ritiene solo “sufficiente” (nessuno “buona” e tanto meno “molta”!)[v.g.]. Evidentemente l’assenza di condizioni culturali e di prospettive professionali in grado di arrestare il deflusso di giovani viene considerato come il riflesso della scarsissima attenzione che la comunità dedica loro.
L’ultimissima domanda sembra però accendere un barlume di speranza. Il 60% degli intervistati ritiene infatti che con un maggior coinvolgimento politico e sociale dei giovani stessi le cose potrebbero cambiare in meglio. Ma si tratta di una speranza resa “prudente” dalla notevole quantità di “forse” (30%)[v.g.].

Conclusioni

Alla fine di questa analisi si possono azzardare alcune conclusioni. Iniziamo con lo sfatare alcuni “miti”: i giovani che abbiamo intervistato in prevalenza non emigrano “per fare un’esperienza fuori casa”, come alcuni ingenui ancora credono. Essi sono mossi per lo più dall’esigenza di completare la propria formazione attingendo da contesti che possono offrire opportunità e stimoli che il territorio d’origine presenta in qualità e quantità inadeguate.
Non è vero che l’emigrazione coincida con uno sradicamento; abbiamo anzi visto che nelle ragazze e nei ragazzi intervistati il legame con il contesto di origine è andato rafforzandosi dopo che si sono stabiliti altrove; nondimeno essi ritengono plausibile l’eventualità di ritornare, a patto che si vengano a determinare condizioni materiali favorevoli.
Infine non è del tutto vero che quegli stessi giovani siano “individualisti” e “spoliticizzati”. Anzi, si constata che la loro attenzione nei confronti delle vicende pubbliche del contesto d’origine cresce con l’emigrazione, che persino la loro partecipazione elettorale si fa più intensa. Il segno definitivo del loro credere nel cambiamento è espresso dalla convinzione che un ricambio generazionale nella vita pubblica potrebbe cambiare le cose – magari intervenendo proprio sulle leve che determinano la migrazione. Ma per promuovere questa trasformazione – paiono dirci i nostri 53 – bisogna rimuovere una classe politica ritenuta ampiamente inadeguata ai compiti che è chiamata a svolgere. Così, se aumenta l’interesse nei confronti della vita pubblica, cresce anche la consapevolezza che solo una rottura degli equilibri correnti potrebbe portare a qualcosa di realmente nuovo.