E se servisse un nuovo intervento pubblico per l’ILVA?

di Roberto Polidori

L’ILVA di Taranto è un caso scolastico di ciò che, in economia pubblica, viene definito “fallimento” del mercato e che contempla un intervento diretto dello Stato. La teoria economica mainstream (cioè accettata dalla quasi totalità degli economisti e insegnata nelle Università) elegge il libero mercato a organizzazione economica migliore di una collettività; la stessa teoria economica ammette l’esistenza di fattori distorsivi del libero mercato che devono essere corretti dallo Stato in modo tale da ripristinare le condizioni per l’efficiente utilizzo delle risorse. Anzi, secondo i liberisti più puri, lo Stato dovrebbe esistere esclusivamente per eliminare gli ostacoli al libero mercato. I casi di fallimento del mercato, secondo la teoria economica, sono sei e secondo me il “caso Taranto” ne presenta quattro: concentrazione della produzione (monopolio o oligopolio), informazione imperfetta (o asimmetrica), disoccupazione ed esternalità.
E’ lapalissiano anche per un bambino che a Taranto l’informazione sulle tecniche produttive e sulle grandezze economiche in gioco è nelle mani della grande industria: si pensi al Centro Studi ILVA, ben più accentrato ed aziendalista del vecchio Centro Studi Ansaldo (asimmetria informativa); è altrettanto chiaro che la grande industria lavora in condizioni di monopolio, che inquina e che tiene sotto scacco un’intera collettività a causa del grande numero di lavoratori che coinvolge nei cicli produttivi.
Dopo sei mesi di partecipazioni ad eventi nella città e conversazioni con esponenti del mondo accademico nazionale e dell’ambientalismo tarantino posso tranquillamente affermare che, come al solito, gli interessi economici sono il motivo per il quale, ad esempio, una grande industria nazionale come l’ILVA può funzionare senza A.I.A. e grazie a leggi che sembrerebbero essere state approvate esclusivamente per permettere ad un impianto – altrimenti fuori legge – di tirare avanti (dgls 155/2010 che estende al benzo-a-pirene l’attuazione di una normativa europea prevista per altri inquinanti ma non per questo inquinante specifico). «Bella scoperta, ci vuole poco a capire che è quasi sempre una questione di soldi», potrebbe obiettare qualsiasi lettore. Si, è vero, ci vuole poco a capirlo, però se mi sveglio la mattina e lo dico davanti allo specchio ha un valore, se invece quest’affermazione così scontata è il frutto dell’elaborazione di una serie di testimonianze raccolte direttamente da persone più qualificate di me – ciascuna nel proprio settore di competenza – ha un valore differente.
Esiste una correlazione inversa tra consistenza numerica degli interessi in gioco e forza della risposta politica per contrastare il “problema inquinamento” di una qualsiasi città ad una qualsiasi latitudine.
La cosa veramente curiosa è constatare come persone esterne alla cittadinanza tarantina ed in particolare scienziati in campi assolutamente non afferenti le materie economiche, arrivino dalle loro analisi a conclusioni che sanciscono il fallimento del mercato e, andando ben oltre, anche il fallimento degli interventi di economia pubblica che dovrebbero ripistinare le condizioni di mercato.
Vediamo cosa pensano della classe politica tarantina alcuni illuminati scienziati venuti da fuori a dirci in che condizioni sanitarie versa la nostra città : «credo che chi si assume la responsabilità di amministrare la collettività di un comune debba avere un po’ di pelo sullo stomaco ogni tanto», parole pronunciate in data 22/01/2011 alle 14:30 circa nel Salone degli Specchi del Comune di Taranto dall’incredulo Prof. Ernesto Burgio, coordinatore nazionale ISDE – branca italiana dell’associazione internazionali Medici per l’Ambiente; in quell’occasione il Prof. Burgio, specialista di tumori dei bambini derivanti da modificazioni del genoma umano ascrivibile ad inquinamento, si alzò in piedi per interrompere il nostro Sindaco e pediatra Ippazio Stefano che, concludendo la Prima Giornata di Studio su Inquinamento e Salute e dopo aver ascoltato una sequela di dati terrificanti snocciolati dallo stesso Burgio e da altri medici altrettanto quotati, affermava candidamente che il problema a Taranto era in via di risoluzione e che, come fuori il cielo si rasserenava – effettivamente nel frattempo il sole aveva fatto capolino dopo una breve temporale – così la situazione ambientale andava migliorando.
«In questi ultimi anni è accresciuta enormemente la cultura e la sensibilità ambientale ma ora l’approccio ai problemi deve cambiare. L’ambiente è una risorsa e la sua gestione deve entrare nella sfera economica del sistema; per questo la politica e l’impresa devono confrontarsi con la comunità scientifica, ma non semplicemente per parlare ma per trovare le soluzioni. [….] Credo che non basterà l’accanimento diagnostico per risolvere le criticità tarantine: serve un confronto franco tra comunità ed interessi d’impresa. Sono quattro anni che andiamo dicendo che la diagnosi su Taranto c’è», parole pronunciate dal Dott. Gianluigi De Gennaro, ricercatore di Chimica dell’Ambiente presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Bari e importante studioso di misurazioni di emissioni inquinanti, durante un’intervista pubblicata su Siderlandia in data 28/03/2011.
«A Cornigliano la chiusura della cokerie e di altri settori a caldo dell’impianto siderurgico ha avuto molteplici cause. L’aspetto ambientale e sanitario sulla popolazione ha avuto la sua piccola parte (ed i miei studi sono solo una piccola parte del complesso degli studi su Cornigliano), ma le ricordo che fino ad ora nessun caso di malattia tra i cittadini è stato indennizzato o riconosciuto dall’ILVA (a mia conoscenza)», parole inviate al sottoscritto con mail del 17/12/2010 dal Prof. Valerio Gennaro, dottore dell’Istituto dei Tumori di Genova ed autore di numerosi studi epidemiologici, .
Gli scienziati non residenti in città che hanno studiato il “caso Taranto” non fanno solo il mestiere di scienziati sollevando un problema sulla base delle osservazioni attinenti la propria specifica attività: ci dicono che le istituzioni preposte alla salvaguardia della salute pubblica a Taranto sono miopi e vanno oltre, riconoscendo un problema di politica economica – nel momento in cui suggeriscono un franco confronto tra collettività ed industriali – e le carenze delle leggi dell’economia pubblica; in particolare il Prof. Valerio Gennaro dichiara che la chiusura dell’ILVA di Cornigliano è il frutto di un’insieme di cause: la causa principale è evidentemente la dimensione trascurabile del sito che ha permesso l’assorbimento dei 650 lavoratori tramite lavori socialmente utili grazie ad un accordo Comune- Provincia – Regione. Avranno contribuito alla chiusura anche le “mamme di Cornigliano”, ma molti sospettano che il proprietario dell’ILVA abbia ammortizzato la chiusura di quell’impianto aumentando la produzione a Taranto.
Ma come risolvono gli altri Stati del globo situazioni simili (magari non così macroscopiche come quella tarantina)? La domanda è pertinente perché se, ad esempio, dovessimo scoprire che in altri paesi ben più evoluti e concorrenziali del nostro ci sono problemi simili, allora diventerebbe lecita una critica tout court delle categorie teoriche liberiste.
Per questa indagine scientifica avrei voluto prendere in esame un caso di esternalità preoccupante e freschissimo: il disastro di Fukushima; ho preferito non farlo per due ragioni: il disastro nucleare è tuttora in corso e le conseguenze non sono quantificabili oggi – e non sapremo come e quando lo saranno; il Giappone (lo Stato che, secondo i manuali di economia pubblica, dovrebbe intervenire per correggere le esternalità del mercato) non è uno Stato liberista classico.
Mi occupo allora del disastro ambientale della Deepwater Horizon avvenuto in acque territoriali americane, La Deepwater Horizon era la piattaforma per estrazioni petrolifere noleggiata per 560.000 $ al giorno dalla BP (British Petroleum), multinazionale petrolifera, ed esplosa in acque territoriali americane a 80 km dalle coste della Lousiana a causa di un’avaria al sistema di pompaggio del pozzo sottomarino in data 20/04/2010. Era la piattaforma più grande del mondo e, nei 106 giorni intercorsi dal giorno dell’incidente a quello della chiusura del pozzo, ha rilasciato nel Golfo del Messico qualcosa come 4,9 milioni di tonnellate di greggio: di gran lunga il disastro ambientale da petrolio più importante nella storia. Il 07 Maggio 2010, a 17 giorni dall’inizio della fuoriuscita, anche nei liberisti States (e nonostante la BP abbia sede legale in Gran Bretagna) Mary Landry, contrammiraglio della Guardia Costriera Statunitense, sminuì l’accaduto dicendo che non c’era rischio di un disastro ambientale, un po’ come ha fatto il Governo nipponico per Fukushima nei primi giorni –il governo, si badi bene e non la società di gestione dell’impianto nucleare da cui ci si potrebbe attendere un comportamento del genere – ed un po’ come fanno i nostri amministratori locali da qualche anno a questa parte in relazione ai palesi danni da immissioni inquinanti dovute alla presenza dela grande industria.
Quando infine la Bp riuscì a bloccare la fuoriuscita, si scoprì che, a parte la morte di 11 persone ed il ferimento di 17 persone, un terzo delle spiagge USA prospicienti il golfo del Messico non sarebbero state balneabili per tantissimo tempo (con introiti da turismo crollati del 25%), il floridissimo mercato dei gamberi della Lousiana (in pratica degli Stati Uniti) sarebbe stato azzerato, moltissime specie protette si sarebbero estinte, ci sarebbero stati danni non prevedibili alla salute degli abitanti delle coste a causa della tossicità del petrolio. Senza considerare il fatto che gran parte del greggio (circa la metà) si sarebbe depositato in laghi sotterranei adagiati sul fondale oceanico. La prima reazione del governo americano fu la sospensione delle autorizzazioni alla trivellazione in Oceano concesse alle compagnie petrolifere (un po’ come la promessa di smantellamento degli impianti di Fukushima o la legge che pospone di un anno l’attuazione del programma nucleare in Italia). Rimarranno negli occhi le reazioni scomposte ed impotenti del Presidente Obama nei confronti della BP per ogni tentativo fallito di arginare la fuoriuscita e le sue immediate rassicurazioni: il 28/06/2010 Obama dichiarò che la BP avrebbe pagato immediatamente 2,65 Mld di $ a titolo di indennizzo, il 23/07/2010 l’ex C.E.O. dimissionario della BP dichiarò agli studenti Cambridge che effettivamente la perdita di petrolio fu dovuta a un malfunzionamento delle valvole di sicurezza di cui BP era a conoscenza – come rivelato dall’operaio Benton ferito nell’esplosione- ma che non aveva ritenuto di dover verificare per problemi di costi. Nella stessa occasione Mr. Hayward si mostrò contrariato per l’atteggiamento del Presidente Obama che, in quell’occasione, aveva dipinto i tecnici e gli ingegneri della BP come incapaci. Ad Ottobre 2010 Obama ritirò il divieto di trivellazione nell’oceano per la ricerca di idrocarburi; il 20/11/2010 si scoprì che la class action collettiva promossa da 450.000 persone era ridotta a 225.000 persone a causa di modulistica incompleta o inesatta; Il 06/01/2011 la Corte Suprema condannò BP a rifondere i danni che, pare, da 20 Mld scenderanno a 2,3 MLD $ più 400 milioni già pagati. Rimborso medio per ricorrente: 12.000 $
Il disastro ambientale petrolifero precedente lontanamente paragonabile a questo fu quello della Exxonn Valdez in Alaska nel 1989, per il quale la più grande compagnia petrolifera del mondo, la Exxon, venne condannata dalla Corte Suprema statunitense a pagare solo 507 milioni di euro il 25/06/2008 per risarcire i danni arrecati ai 32.000 richiedenti (15.840 $ medi a ricorrente). E’ chiaro che rimborsi siffatti risarciscono solo una minima parte del danno arrecato.
Come è facile capire anche nella patria del liberismo estremo, gli Stati Uniti, le multinazionali dei settori industriali (ma nei settori dei servizi come le banche la musica non cambia, anzi peggiora) certamente non agiscono in regime di concorrenza ma di oligopolio (prima distorsione del mercato), producono esternalità (seconda distorsione del mercato) e il gigantismo di queste aziende permette loro di “ricattare” i Governi degli Stati in cui immettono esternalità negative proprio perché solo queste aziende – date le dimensioni – sono dotate (se le hanno) di tecnologie capaci di contenere i propri errori (asimmetria informativa: terza distorsione del mercato). Ai governanti degli Stati non resta che far finta di essere irritati per la mancanza di solerzia delle aziende nel correggere gli errori da parte di queste multinazionali, ben sapendo che queste compagnie occupano molti lavoratori e, spesso, pagano le campagne elettorali costose delle stesse persone che dovrebbero garantire l’eliminazione delle distorsioni che queste creano. Tutte queste distorsioni non fanno altro che trasferire i costi aziendali alla collettività, gonfiando i profitti di poche grandi aziende private ed incidendo sulla spesa pubblica e quindi, tramite le imposte, sulle tasche dei cittadini.
E’ statisticamente dimostrato che è in drastico aumento l’indice di concentrazione delle aziende (la tendenza cioè delle aziende di uno stesso settore a fondersi o ad ingrandirsi per creare colossi di settore). E la concorrenza dov’è? Il libero mercato dov’è? Non è forse il caso di sganciare le produzioni da forme di concentrazione troppo vincolanti in modo tale da rendere i lavoratori più liberi dal ricatto occupazionale e più tutelati nei loro diritti? E dimensioni aziendali più piccole non garantirebbero, forse, un minore conflitto di interessi tra governanti ed utili di multinazionali ed una reale possibilità d’intervento in caso di trasgressione delle regole di concorrenza?