“Il PIL ti salva la vita”

di Roberto Polidori

Mi piace citare Stefano Perri, professore ordinario di Politica Economica all’Università degli Studi di Macerata :«Scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione di capitale». L’accumulazione di capitale avrebbe dovuto garantire gli investimenti produttivi capaci di impegnare altro lavoro; la maggiore produttività del lavoro avrebbe remunerato maggiormente il lavoro. C’è tanta gente che racconta panzane – ce le racconta da più di qualche decennio – e che si nasconde dietro la presunta “scientificità” delle teorie economiche utilizzate. Ritengo che nascondersi dietro la dichiarata affidabilità matematica dei tecnocrati dell’economia è molto comodo perché vuol dire dirottare chi vorrebbe interessarsi della materia sulla lettura di articoli e testi non economici, con la scusa che “i meccanismi che stanno sotto” le decisioni di politica economica sono di difficilissima comprensione e quindi roba da tecnici. Una concezione alquanto elitaria di chi ha qualcosa da nascondere e, mi si consenta, di una vigliaccheria unica.

Ad Annozero del 05 Maggio scorso ho sentito Formigoni apostrofare un precario della scuola che ironizzava sul concetto di ricchezza – «Ma cos’è questo PIL? Io non l’ho mai visto e non riesco a mangiarlo» – con un’affermazione perentoria : «Male, dovresti conoscerlo perché il PIL ti salva la vita»; lui, il politico arrivato, si è comportato con la sicumera di chi ha accesso alla Verità Rilevata da disvelare con la magnanimità dell’uomo superiore al povero ingenuo di passaggio nello studio televisivo. Per fortuna non tutta la nostra classe politica è da rottamare, anche perché bisognerebbe poi valutare la consistenza morale e il valore tecnico di eventuali rottamatori.

Il PIL e lo scopo della politica economica

Il PIL è il valore dei bene e dei servizi prodotti da un sistema economico in un determinato arco di tempo, ovvero la somma dei redditi prodotti nello stesso arco di tempo; è un indicatore che ha un unico grande pregio: la possibilità di prestarsi a confronti, in quanto costruito su principi di contabilità accettati universalmente. Fotografa con un numero secco la “ricchezza globale” prodotta da un paese. Attraverso questa grandezza possono essere effettuati confronti numerici su quanto un’economia nel suo “complesso” stia andando bene in assoluto e in confronto alle economie di altri paesi.
Su questa definizione e sulle modalità di calcolo gli economisti concordano. Gli economisti sono in disaccordo un po’ su tutto tranne che su un paio di fenomeni economici empiricamente dimostrati ed obiettivamente non in discussione: 1) il tasso di disoccupazione si riduce quando il PIL aumenta molto (legge di Okun); 2) il tasso di inflazione – incremento continuo e sostenuto dei prezzi – aumenta al ridursi del tasso di disoccupazione (curva di Phillips); da ciò discende che un aumento sostenuto del PIL determina un aumento del tasso di inflazione (si dice che l’economia “si surriscalda”), se non accompagnato da un conseguente aumento della popolazione residente o della quantità di lavoro. Peccato che anche la legge di Okun abbia smesso di funzionare da quando una quota sempre maggiore del reddito prodotto dal lavoro è finita nelle mani del capitalista. E’ proprio Blanchard, capo-economista del Fondo Monetario Internazionale, che confessa questo piccolo enorme problema nel suo celeberrimo manuale di macroeconomia. Quando si dice “la scienza triste”.

Le scuole di pensiero “interventiste” di politica economica sono sostanzialmente due: 1) la prima mira a ridurre le disuguaglianze nella distribuzione del reddito attraverso l’imposizione fiscale delle classi più abbienti (politica redistributiva) e attraverso maggiori servizi sociali per chi non può permetterseli; ciò implica, secondo la teoria neoclassica dominante, effetti recessivi nelle economia dei paesi, poiché un aumento dei salari reali induce un aumento dell’inflazione se non accompagnato da un aumento della produzione reale. Potremmo dire che “più giustizia si paga con meno crescita o decrescita alla lunga non sostenibile e comunque con un alto livello di imposizione fiscale”; 2) la seconda tende a creare un’ambiente idoneo a far sì che le attività produttive nascano e si sviluppino accettando livelli di disuguaglianza più o meno grandi. Potremmo semplificare dicendo :”più deregolamentazione e più libertà per le imprese significano più reddito ma le paghi con più disuguaglianza distributiva“. Alla prima scuola di pensiero appartiene chi ritiene piaghe sociali il basso reddito delle classi meno abbienti e la disoccupazione (democratici-progressisti). Alla seconda scuola di pensiero appartiene chi persegue la crescita a tutti i costi e chi considera l’inflazione una grossa piaga sociale (liberisti).

Magiche previsioni dei Chicago boys

La teoria neoclassica nasce nel secondo dopoguerra quando, dopo la stagione keynesiana necessaria a rappezzare gli sfracelli liberisti che causarono la crisi del ’29, si cercò di restaurare le esigenze liberiste dell’intellighentia politica cercando una sintesi impossibile tra keynesismo della spesa pubblica e libero mercato; la storia avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Ma il compromesso storico suggellato tra politica e imprenditoria aveva bisogno delle vecchie basi teoriche per essere ripristinato: ”io imprenditore aiuto te politico – e talvota imprenditore tu stesso – ad essere eletto e a mantenere la carica, tu predisponi l’apparato logico istituzionale per consentire il mio libero arricchimento”.
Perciò l’obiettivo istituzionale che la Fed americana – la Banca centrale americana – si è posta a partire dagli anni novanta è stato: 1) mantenere un’economia di piena occupazione; 2) combattere l’inflazione tenendo bassi i tassi di interesse. Anche Obama ultimamente ha varato il suo piano economico statunitense tutto teso a “tagliare le spese improduttive e a stimolare la crescita con iniziative mirate”. Qualcuno mi spieghi: se il tasso di disoccupazione si riduce quando il Pil aumenta e se l’inflazione aumenta quando il PIL aumenta, com’è possibile ridurre la disoccupazione e tenere sotto controllo l’inflazione? Non si può a meno di non mantenere “istituzionalmente” bassi i salari reali (si parla in questo caso di riduzione del salario reale rispetto agli incrementi di produzione o “deflazione salariale”); la soluzione ottimale sarebbe quella di consegnare gli aumenti di produttività conseguiti dal lavoro agli operai, ma ciò avrebbe significato meno profitti per chi ha il capitale. Per trent’anni questa sorta di miracolo è sembrato possibile grazie ad un trucco contabile che moltissimi economisti (tra cui Keynes, Minsky, Sylos Labini e Kindleberger) avevano previsto in anticipo di lustri: la clamorosa crescita del PIL statunitense è avvenuta “ a debito” per sostenere la domanda di beni, ed ad indebitarsi sono state le classi meno abbienti con un colossale trasferimento di ricchezza da una moltitudine (ora sull’orlo del fallimento) a poche persone che tendono a concentrare nelle proprie mani gran parte della ricchezza planetaria. Anche questa è “deflazione salariale”, coperta però artificialmente dall’enorme indebitamento privato sotto il tappeto di un’economia apparentemente sana. Alla fine la bolla è scoppiata.
Secondo i Chicago Boys, quindi, la deregolamentazione dei mercati è una cosa buona perché ci guadagnano tutti; poco importa se la parte maggiore dell’incremento di ricchezza finisca nelle tasche di chi impegna capitale finanziario o industriale (la minoranza delle persone): l’importante è che una parte anche minima di quell’incremento di ricchezza reale vada a finire anche nelle tasche degli operai. Lo scioglimento di lacci e lacciuoli e la liberalizzazione dei mercati garantisce una riduzione della disoccupazione (anzi per i neoclassici la disoccupazione non esiste, è solo “strutturale”, cioè determinata da chi abbandona volontariamente il posto di lavoro per cercarne uno migliore). Meglio lasciar perdere i postulati sui quali le convinzioni del “pensiero unico” si basano; riassumendo: maggior libertà d’impresa, garantita dal mercati aperti con cambi liberi e privatizzazioni massicce, genererebbe maggiore disuguaglianza nella distribuzione dei redditi ma, di contro, maggior ricchezza per tutti, maggior occupazione, un’imposizione fiscale diffusa e bassa, minore spesa pubblica.

La dura realtà misurata dai numeri

Una premessa è indispensabile: l’attuale organizzazione del lavoro e la libera circolazione di capitali degli ultimi venti anni ha determinato un disequilibrio commerciale a livello planetario che si riflette ormai perennemente nelle bilance commerciali dei singoli paesi, caratterizzandoli come paesi fortemente importatori (italia, Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo, USA) e paesi fortemente esportatori (Germania e Cina) in cui si concentrano la maggior parte dei capitali finanziari. Non è questa la sede per spiegare perché questo forte squilibrio è un male capace di minare alla base la pace sociale non solo dell’Europa, ma anche dell’intero globo; e non è questa la sede per spiegare perché, se l’Italia volesse imitare la Germania aumentando la produttività a spese dei salari – cosa che sta cercando di fare – il ceto medio è destinato ad impoverirsi con una velocità impressionante ed imprevedibile – l’impoverimento del ceto medio si sta già verificando in tutte le economie mature da almeno 15 anni. Conviene partire da un dato di fatto: la Germania è il motore dell’Europa e il secondo paese esportatore al mondo dopo la Cina. E’ il paradigma di sistema economico di successo dell’Europa occidentale matura; e’ il nostro modello europeo di riferimento se vogliamo capire come, in venti anni di liberismo, un paese avrebbe dovuto svilupparsi permettendo piena occupazione ed incremento dei salari. Se si dimostra che non tutti gli obiettivi degli amici di Chicago sono stati raggiunti, allora si dimostra che qualche meccanismo delle “teorie” non ha funzionato e che, forse, un altro modello si sviluppo economico potrebbe essere non solo possibile ma plausibile e necessario. Soprattutto se questi “piccoli” malfunzionamenti hanno avuto implicazioni negative per un gran numero di persone, tipo una crisi economica grave e duratura quanto quella del ‘29
Il Pil tedesco “ai prezzi correnti” – calcolato cioè dopo averlo depurato dall’aumento dei prezzi di ciascun anno – è passato da 1.646 mld di euro nel 1992 a 2.498 MLD di euro del 2010, facendo registrare un incremento del 51% (dati Fondo Monetario Internazionale) ; si tratta di un incremento in termini reali. Il tasso di disoccupazione tedesco è aumentato – poco invero – dal 1992 al 2010 passando dal 6,34% al 6,85% (dati del fondo Monetario Internazionale); il tasso di occupazione è rimasto quasi identico, mentre i compensi da lavoro su PIL prodotto in Germania sono scesi dal 68% del 1976 al 53 % del 2006 (dati OCSE – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Ciò significa che nel paese simbolo dello sviluppo trainato dalle imprese, nel paese comunque dotato di un livello infrastrutturale e istituzionale migliore, nel paese in cui le autorità di politica economica intervengono meglio che in altri paesi per correggere eventuali “distorsioni” all’applicazione del libero mercato, nel paese che ha comunque mantenuto un alto livello di servizi sociali, in questo paese trent’anni di liberismo hanno determinato il preconizzato aumento del PIL, che non è stato accompagnato da un grande aumento dei prezzi (inflazione moderata), ma che non ha determinato certamente una riduzione del tasso di disoccupazione pura – come vorrebbe la teoria neoclassica – avendo causato una potente redistribuzione dei redditi dai redditi da lavoro dipendente a redditi da capitale. Un economista direbbe che “l’aumento di produttività” tanto decantato da chi in Italia vorrebbe imitare la Germania – e per farlo dovrebbe stravolgere il nostro sistema clientelare che ha messo profonde radici nelle istituzioni– ha permesso l‘esportazione di prodotti di qualità in tutti i paesi dell’Unione Europea, ha permesso un poderoso incremento del Pil, ma lo ha fatto a spese del reddito da lavoro (salario e lavoro autonomo) (dati OCSE desunti dal recentissimo rapporto Growing unequal). E se tutto questo è vero per la Germania, fiore all’occhiello del modello economico mainstream in voga, figurarsi per l’Italia: secondo i dati OCSE l’Italia è il quarto paese sui 24 appartenenti all’OCSE per sperequazione nella distribuzione dei redditi (prima di noi nell’ordine solo Messico, Usa e Turchia). In conclusione, i dati OCSE e i dati AMECO (la Relazione annuale di macroeconomia della Commissione Eruopea) dimostrano che persino in Germania i salari reali – cioè depurati del costo della vita – sono sono stati decrescenti rispetto agli incrementi di produzione a partire dagli anni settanta.
Quanto alla diffusa tassazione dei redditi con un’aliquota bassa….il caso Italia è sotto gli occhi di tutti: tassazione alta e certa per la maggioranza meno abbiente ed ampia possibilità di evasione ed elusione per gli imprenditori. Ma le tasse sono aumentate anche in Germania, almeno per i lavoratori dipendenti.

Conclusioni

Ora, le teorie Keynesiane possono andare più o meno di moda con il passare degli anni, ma la famosa identità dell’economista inglese è ormai universalmente accettata e ci dice che il reddito è la somma di consumi, spesa pubblica ed investimenti netti (investimenti meno risparmio). In un mondo in cui i consumi crollano a causa della riduzione della quota salari sul reddito, in un mondo in cui i profitti degli imprenditori ed il capitale finanziario vengono reinvestiti solo in parte (una gran parte diventa risparmio accumulato in grandi ricchezze), in un mondo in cui la spesa pubblica, dopo aver salvato le banche private, non può più sostenere il reddito, ci si chiede come sarà possibile combattere la bolla esplosa dell’enorme debito. Il debito può essere combatutto solo aumentando le imposte e spendendo meno o producendo dippiù. Le imposte sono state già aumentate dappertutto in Europa (è di qualche giorno fa la notizia che la pressione fiscale sui salari è passata in Italia al 46,9% del reddito) I signori dell’OCSE, della BCE, del FMI – si badi bene, gli stessi signori che ci forniscono tutti questi dati – ci dicono che, nel nome del liberismo puro, hanno deciso la via dell’austerità. Grecia, Portogallo e Irlanda, stati sovranoi espropriati della propria sovrenità, ringraziano. Spagna ed Italia ringrazieranno a breve.
Persino la Germania dimostra che un PIL alto “non salva la vita” se il lavoro non viene remunerato per tutto ciò che ha prodotto. Il lavoratore dipendente italiano è diventato sempre più schiavo negli ultimi 15 anni e chi vuole risolvere la crisi propone una nuova dose “definitiva” di liberismo e privatizzazioni. E se provassimo ad uscirne “dal lato del lavoro” con un salario standard?