Dramma in provincia di Taranto: la fine del lavoro e l’ingiustizia sociale

di Roberto Polidori

Nonostante un modestissimo incremento della ricchezza prodotta nel 2010 rispetto al 2009, la provincia di Taranto soffre di un male comune a tantissime altre provincie italiane e regioni del mondo: la disoccupazione aumenta e, purtroppo, è destinata ad aumentare ad un ritmo più serrato nel prossimo futuro, quando la Cassa Integrazione Guadagni Speciale ed in Deroga sarà finita e le istituzioni non potranno rifinanziarla. Ciò significa che il reddito prodotto continua ad essere distribuito in maniera sperequata e che il divario del tenore di vita tra più ricchi e più poveri è oggi più ampio in provincia di Taranto esattamente come in Italia (dati OCSE 2011). E gli anni a venire non promettono nulla di buono.

E’ questo il giudizio sintetico che fornisco dopo aver letto il Rapporto 2011, stilato dal Centro studi della Camera di Commercio di Taranto in occasione della Nona Giornata dell’Economia del 6 Maggio 2011. E’ una valutazione divergente in alcuni punti salienti da quello che lo stesso Centro Studi fornisce nell’introduzione dell’utile pubblicazione, quando si sforza di voler interpretare con fiducia alcuni timidissimii indicatori di ripresa i cui effetti di trascinamento – cioè gli effetti benefici sulla domanda di lavoro in particolare – saranno inesistenti a mio modo di vedere.

ll PIL della provincia ed il significato reale del dato

Uno dei motivi che dovrebbe rincuorarci è l’aumento del PIL provinciale: nel 2010 è aumentato dello 0,1% sul 2009 (dato tendenziale); i dati statistici hanno però bisogno di essere interpretati integrandoli con alcune considerazioni.

Grafico1 Fonte: Istituto Guglielmo Tagliacarne

L’Istituto Tagliacarne, notissimo Centro Studi italiano della Fondazione Unioncamere specializzato in studi economici e statistici, misura l’incremento medio di ricchezza reale pari al 4,7% medio annuo dal 1995 al 2009. Ricordo che un incremento di PIL indica che la ricchezza del sistema provinciale è aumentata: non fornisce indicazioni circa la distribuzione della stessa. Come ben evidenziato dal Grafico 1, però, è lo stesso Rapporto del Centro Studi ad attestare in che misura sia variato il Pil annuale misurandolo in incrementi percentuali anno su anno a partire dal 2003 . Supponendo un valore iniziale di Pil pari a 100 nel 2003, ciò significa che nel 2004 il PIL provinciale era salito a 107,2. Nel 2005 era cresciuto del 2,30% di 107,2 (non di 100), diventando così 109,66. Alla fine 2010 si ottiene un incremento dell’11% circa in 7 anni, pari ad un misero incremento medio annuo di 1,57% di Pil provinciale dal 2003 a fine 2010. Le variazioni annue di PIL, ci dice il Centro Studi, sono state calcolate ai prezzi correnti: vuol dire che si tratta di incrementi reali (depurati dall’aumento del costo della vita o inflazione).
Nel 2010 il Pil pro-capire disponibile della provincia jonica è stato pari a 16.950 Euro, invariato rispetto al 2009, secondo tra le cinque provincie dietro Bari, al novantaduesimo posto della classifica delle provincie italiane (quindi quasi sul fondo della classifica), ma con un recupero di otto posizioni rispetto alla classifica del 1995 – magra consolazione. Incrociando i dati provinciali con altre grandezze macroeconomiche nazionali ne discendono considerazioni interessanti che il Rapporto non azzarda minimamente; il PIL pro- capite disponibile è una misurazione media del reddito disponibile di ciascun individuo della provincia Jonica: gli individui possono essere, a titolo esemplificativo, ricchi imprenditori di successo, faccendieri, operai, insegnanti, dipendenti di aziende private, cassintegrati e disoccupati. I dipendenti pubblici e privati difficilmente possono evadere o eludere il fisco, per esempio e si sa per certo (dati OCSE 2007 e 2011 – recentissimi) che la pressione fiscale del lavoro dipedente è aumentata in tre anni dal 44% al 46,9% riducento la capacità di consumo di queste categorie di persone. A livello regionale noi pugliesi dovremo poi aggiungere un ulteriore aumento della pressione fiscale dovuto ad un incremento di addizionale IRPEF (imposta sulle persone fisiche dallo 0,9% all’ 1,4%), ad un aumento delle accise sui carburanti di 2,5 centesimi di Euro per litro. Non dimentichiamo poi l’aumento di inflazione non rilevato dagli attuali indici di rivalutazione utilizzati per depurare le grandezze dall’inflazione: questi indici infatti non considerano gli incrementi determinati dall’aumento dei prezzi del petrolio e dei suoi derivati (cioè il bene il cui prezzo è maggiormente cresciuto ultimamente). Anche il prezzo della fornitura di elettricità e gas sono strettamente correlati all’aumento del prezzo del petrolio: ecco perché la formidabile impennata dei prezzi delle bollette è solo molto parzialmente misurato dal bassissimo aumento dell’inflazione indicata dall’ISTAT; è il metodo di calcolo dell’inflazione che la sottovaluta.
L’ISTAT, in un lavoro pubbliicato in data 11/01/2011, ha calcolato che nel 2010 il potere d’acquisto delle famiglie, cioè il reddito disponibile delle famiglie in termini reali, è calato dello 0,6 per cento su base annua. La riduzione segue la forte contrazione registrata nel 2009: -3,1 per cento di potere d’acquisto.
ll reddito delle famiglie ha registrato un aumento dello 0,9 per cento rispetto al 2009, ma ha dovuto far fronte ad una crescita della spesa per consumi “più consistente” rispetto all’anno precedente (+2,5 per cento), rileva ancora l’istituto di statistica, che spiega così la riduzione della propensione al risparmio degli italiani, definita dal rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e il loro reddito disponibile: si è attestata al 12,1 per cento, registrando una diminuzione di 1,3 punti percentuali rispetto al 2009. In particolare, nel quarto trimestre dell’anno la propensione al risparmio delle famiglie è stata pari al 12,4 per cento, superiore di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente, ma inferiore di 0,8 punti percentuali rispetto al corrispondente trimestre del 2009.

Propensione al risparmio delle famiglie

Grafico2. Fonte: Istat

Ancora: in uno studio che ha fatto scalpore proprio Confcommercio ci ha detto che, negli ultimi 20 anni, il risparmio delle famiglie italiane è crollato del 60% e il “mattone” si è confermato come bene rifugio per eccellenza: dal 1990 il risparmio complessivo si è ridotto di circa 20 miliardi di euro. “Se all’inizio del periodo per ogni 100 euro di reddito se ne risparmiavano 23 – lamenta l’associazione – oggi le famiglie riescono a metterne da parte meno di dieci”.”Nello stesso periodo – prosegue la nota – con un reddito disponibile stagnante e sostanzialmente invariato dal 1990 al 2010, il risparmio annuo pro capite, in termini reali, si è ridotto di quasi il 60% (circa 4.000 euro nel 1990, 1.700 euro nel 2010); un terzo delle famiglie italiane ritiene l’investimento in immobili la principale forma di utilizzo – soprattutto a fini cautelativi – del surplus monetario”.Secondo gli analisti della Confcommercio il livello dei prezzi – come anche quello delle retribuzioni monetarie – è oggi più elevato del 50% rispetto all’inizio degli anni ’90. Per questo la quantità di beni e servizi che si possono acquistare con il risparmio del 2010 è meno della metà di quanto si poteva acquistare con il risparmio del 1990
“La ragione di questa contrazione, purtroppo, è tutta dentro la prolungata riduzione del reddito disponibile delle famiglie – nota Confcommercio – rispetto a dieci o venti anni fa il Paese avrebbe bisogno di maggiore risparmio e invece le condizioni economiche non lo consentono. La gravità della stagnazione dei redditi nel periodo pre-recessione e la profondità della caduta dei redditi durante la recessione del biennio 2008-2009 si vedono meglio, dunque, attraverso la lettura delle statistiche sul risparmio rispetto a quanto emerge dalle valutazioni sulle dinamiche dei consumi”.

I dati sull’occupazione in provincia

Il dato sull’occupazione in provincia contribuisce a definire il quadro drammatico della situazione. Una volta appurato che un piccolo aumento del PIL provinciale non fornisce alcun segnale positivo per le famiglie – che consumano di meno a causa di un crollo verticale del loro reddito disponibile – avrei riposto l’unica speranza di ripresa se la disoccupazione si fosse ridotta in concomitanza di un aumento della popolazione attiva. E invece è accaduto il contrario. Non solo è aumentato il tasso di disoccupazione, passato dal 9,6% del 2009 al 12,5% nel 2010, ma è ancora più importante l’incredibile caduta del tasso di occupazione, passato in un anno dal 43,6 al 42,5%. Ricordo che il tasso di disoccupazione è il rapporto tra disoccupati in cerca di lavoro e forza lavoro (popolazione tra 15 e 64 anni di età), mentre il tasso di occupazione è il rapporto tra occupati e popolazione totale. La clamorosa novità è il dato invariato sul tasso di attività (48,6%) che misura il rapporto tra popolazione occupata ed in cerca di lavoro e popolazione tra 15 e 64 anni (il dato medio in Italia si aggira sul 57%). Ciò significa che tutti i licenziati del 2010 hanno in pratica deciso di iscriversi nelle liste di collocamento perché evidentemente non si trova neanche più lavoro nero. E infatti gli occupati della provincia di Taranto sono passati da 179.000 unità del 2008 a 172.000 unità del 2009 a 166.100 unità del 2010, mentre le persone in cerca di occupazione salgono a 23.700 unità del 2010 da 18.000 unità del 2009: le 5.900 persone licenziate hanno deciso di iscriversi quasi totalmente nelle liste di collocamento.
Ma non è finita: la pietra tombale sulla parola “lavoro” in Provincia è posata dall’INPS, che fornisce i dati sulla Cassa Integrazione Guadagni. Le ore autorizzate sono schizzate da 11.241.785 del 2009 (che era già un record) a 24.920.787 del 2010 e di queste ben 19.780.416 sono destinate alla Cassa in Deroga o alla Cassa Speciale – significa che originariamente gli occupati destinatari di questi provvedimenti erano già stati in Cassa Ordinaria. Tenendo conto del fatto che i lavoratori in cassa integrazione sono considerati “occupati” a tutti gli effetti nelle statistiche di contabilità nazionale ISTAT, ciò significa che il tasso effettivo di disoccupazione in provincia è almeno al 16-17% ad essere ottimisti.
Teniamoci forte perché, PIL o non PIL, la nottata non è passata per niente.