di Francesco Ferri
Negli istanti nei quali un pensiero strano o insolito si insinua nel nostro vissuto e nel nostro mondo delle idee, la mente immediatamente lo riarticola, provando a formularlo in maniera differente, nella speranza di aver letto, sentito o compreso in maniera errata. Quasi mai il tentativo di donare compatibilità a qualcosa che irrimediabilmente è diverso dal tracciato logico che ci attendevamo, ha esito positivo.
Ecco, questo sembra essere il tipo di percorso emotivo nel quale si può essere imbattuto chi ha letto la notizia Ansa delle 18.59 del 25 Novembre.
Il titolo del lancio di agenzia: “Lavoro: sit-in Confindustria e sindacati, tensione a Taranto”, avrà indubbiamente creato confusione e stordimento, generando inizialmente la speranza che l’evidente problematicità dell’accostamento di due termini (teoricamente) antitetici fosse causato da una virgola posta male, o da una battitura infelice.
Passando al merito della nota i dubbi iniziali lasciano il posto ad una serie di possibili reazioni, che sembrano tutte tangenti alla cosi tanta inflazionata indignazione.
Proviamo a riflettere su quanto accaduto sotto Palazzo di Città, analizzando proprio la terminologia utilizzata dalla nota agenzia di stampa.
L’Ansa, nel suo solito linguaggio asciutto e diretto, informa del “sit-in sotto la sede del Municipio di Confindustria e sindacati per chiedere al sindaco, Ippazio Stefano, di decidere rapidamente a favore della costruzione della nuova centrale Eni”.
Poche battute, gettate lì prima nel magma di mille notizie di vario segno e colore, che però invocano una serie di riflessioni urgenti e rimando a numerose suggestioni con le quali sembra necessario provare a fare i conti.
Una prima idea ce la suggerisce l’ordine logico nel quale la pressoché totalità dei giornali cartacei e virtuali (Ansa ovviamente compresa) collocano le parole Confindustria e Sindacati, e sembra già indicativa dei valori in gioco. La consecutio terminologica è sempre la medesima: chiunque narri lo svolgersi dei fatti cita prima l’associazione dei datori di lavoro e dopo le organizzazioni sindacali.
Questa scelta pressoché unanime indica, nella percezione (implicita) di chi ha scritto e raccontato del sit-in sotto Palazzo di Città e nelle proteste (esplicite e sacrosante) di chi manifestava il proprio disappunto nei confronti di quello che stava accadendo, che se padroni e sindacati manifestano insieme, i secondi risultano giocoforza subalterni ai primi.
Non è utile obiettare che i sindacati possano aver espresso opinioni parzialmente divergenti da quelle degli industriali. Una scelta politica del genere, dall’elevatissimo impatto visivo e simbolico, fagocita qualsiasi possibile divergenza di vedute. In questo senso, si pone in assoluta continuità con le suggestioni successive al famoso accordo Marcegaglia – sindacali confederali. In pochi ricorderanno il testo dell’accordo. Tutti invece sono rimasti impressionati dalle calorose strette di mano tra la raggiante Emma e l’impacciata e confusa Susanna.
Proseguendo la lettura della nota, l’agenzia di stampa ci informa che la manifestazione si svolge ”sotto la sede del Municipio”. Chi ha presente le dinamiche della vita sociale e politica cittadina sa bene che non si tratta di un spazio neutro, di un simbolo bianco. Al contrario lo spazio racchiuso tra le colonne doriche e Palazzo di Città è probabilmente il luogo del capoluogo Ionico nel quale con più frequenza ogni giorno donne e uomini si materializzano in una processione di dignità e disperazione. Risulta forse inappropriato che le organizzazioni sindacali abbiano manifestato, chiedendo il via libera all’ampliamento di una delle “grandi industrie” tarantine proprio in quei metri quadri spesso attraversati da drammi proprio di derivazione industriale (inquinamento, ma anche mancanza di alternative occupazionali).
Accanto al dove, la notizia Ansa ci racconta anche il come. L’inglese “sit-in”, è probabilmente dotato di poca forza simbolica. La traduzione più efficace, presidio, ha sicuramente una capacità suggestiva superiore. Viene associato immediatamente alle recenti immagini degli operai metalmeccanici davanti ai cancelli di Temini Imerese, ma anche alla lotta dei somministrati Ilva che un anno fa occupavano il ponte di fronte alla direzione Ilva.
Appare infelice, sempre sul piano simbolico, che i sindacati in questione si atteggino, oltre che nei confronti dei luoghi, anche in merito alle pratiche rivendicative, in maniera neutra, come se le modalità di protesta non avessero una storia, anche nel nostro territorio, fatta di lotte drammatiche e degne, tutte interne al mondo del lavoro, intimamente legate con le vite di innumerevoli lavoratrici e lavoratori e allo stesso sindacato.
Anche per queste ragioni simboliche (che si pongono in continuità con le osservazioni tecniche in tema di problematicità dell’ampliamento della centrale Eni prodotte dalle associazioni ambientaliste), la scelta dei sindacati di scendere in piazza insieme a l’associazione degli industriali appare inopportuna.
Provando a fare i conti con la drammaticità del contesto economico e sociale tarantino, è estremamente difficile immaginare un piano d’azione o una scelta strategica nella quale gli interessi degli industriali e quelli dei lavoratori appaiano cosi prossimi da poter essere rappresentati in un presidio congiunto.
Una scuola di pensiero progressista, radicata nel pensiero di dirigenti politici, imprenditoriali e sindacali nella nostra città, continua a ritenere possibile che le grandi industrie in questione attuino scelte strategiche compatibili con il bene comune della città, e che possano mostrare (in un futuro perennemente indefinito) indirizzi di azione diversi dalla costante ricerca di incremento dei profitti in totale contiguità con gli ultimi trent’anni di sfrenato neoliberismo. Sarebbe estremamente più difficile per quella scuola di pensiero continuare a sostenerlo, se solo la comunità tarantina fosse in grado di raccontarsi e di raccontare in maniera efficace l’ampiezza e la profondità dei drammi nei quali da decenni è immersa.
Diversi come i sogni, non ci uniremo mai (Gianfranco Manfredi, Nella diversità)