Un assassinio irrisolto e una memoria sempre viva. Valerio Verbano, una storia italiana

di Gaetano De Monte

Il 22 febbraio di ogni anno un intero quartiere di Roma, il Tufello – zona del IV Municipio, periferia nord della Capitale, incastonata nel triangolo compreso tra viale Jonio, via delle Vigne Nuove, e via di Val Melaina – si stringe nel ricordo di Valerio Verbano, figlio di quello stesso rione. Il Tufello è sorto durante il fascismo: vi furono trasferiti i cittadini allontanati dal centro della città a causa degli sventramenti messi in atto dal regime per enfatizzare il carattere monumentale e rappresentativo di Roma Capitale. Un quartiere che ha accolto abitanti di modesta estrazione, costretti ad allontanarsi dal loro ambiente originario, simbolico nella sua semplicità, tanto da diventare la location scelta negli anni ’50 dal cinema neorealista per film come “Ladri di biciclette”. “Popolare e proletario” si diceva una volta, così distante dai ricchi e borghesi quartieri vicini: il Trieste-Salario, il Nomentano.

Il 22 Febbraio del 1980 Valerio Verbano, studente del Liceo Scientifico Archimede, attivista di Autonomia Operaia, veniva ucciso barbaramente in casa sua, davanti agli occhi del padre e della madre da un commando neo-fascista, rimasto ancora oggi, dopo 32 anni, senza volto. Rientrato a casa dopo la scuola, Valerio trovò i genitori legati ed imbavagliati e tre uomini con i visi coperti da passamontagna che lo aspettavano. Forse, più che per ucciderlo, per interrogarlo. Perché Valerio sapeva molte cose, annotava tutto, scriveva, fotografava. Un vero e proprio “mediattivista”, lo s definirebbe oggi. Quel che è certo, comunque, è che quel giorno un giovane di soli 19 anni fu ucciso con un colpo alla schiena. Forse per un diario, in cui era annotata, assieme a centinaia di nomi di militanti dell’estrema destra romana, una grande quantità di materiale, un lavoro iniziato già nel 1977, quando Valerio aveva soltanto sedici anni ed aveva formato il collettivo autonomo dell’Archimede. Una vera e propria opera di controinformazione, che aveva prodotto un archivio fotografico e uno storico, che racchiudeva i fatti e i personaggi dell’estrema destra nella Capitale. Redige un vero e proprio fascicolo Valerio: quello che poi sarà chiamato il Dossier Nar (Nuclei armati rivoluzionari), nel quale raccoglie nomi, foto, luoghi di riunione, amicizie politiche e presunti legami dei neofascisti con gli apparati dello Stato. Forse un modo per difendersi “dall’arrivo dei colonnelli” – che in quegli anni sembrava potessero dar vita ad un colpo di stato della destra anche in Italia. Così come era successo un decennio prima in Grecia. Fu questa attività, più che quella di militante di strada, che lo espose ai pericoli della “Roma nera”: qualche mese prima dell’omicidio aveva ricevuto infatti una serie di telefonate di minaccia. Ma il diario era già sparito nel 1979, quando la Digos lo sequestrò a casa sua e poi lo restituì solo parzialmente ai genitori. Salvo poi de-materializzarsi di nuovo completamente. E’ questo il primo mistero di questa storia italiana, che come ogni vicenda violenta politicamente rilevante di quegli anni porta con sé i suoi sospetti, le sue rivendicazioni e naturalmente i suoi depistaggi.

Nella storia di questo assassinio, poi, l’aspetto delle rivendicazioni è molto importante, perché consente di avere una cartina di tornasole della Roma di quel periodo: una serie di volantini, firmati “Gruppo Proletario Organizzato Armato”, indicano dapprima una pista di sinistra, come se Verbano fosse un delatore: un’ipotesi fabbricata ad arte da un gruppo specifico della galassia dell’estrema destra romana, che si occupava di mettere in circolazione questo tipo di volantini depistatori. Ma alla fine arrivò anche quella che appare ancora oggi, nonostante l’impunità di cui godono gli esecutori, la rivendicazione più plausibile: un volantino che appare scritto da chi ha ucciso Valerio, a firma Nar. Una rivendicazione da ritenere sicuramente autentica, oltre che per il movente, perché cita alcuni particolari dell’omicidio. Quel primo depistaggio rappresentò il solito tentativo di mettere insieme rossi e neri: quel valzer teorico degli opposti estremismi, che – l’abbiamo imparato dallo studio della storia delle stragi di Stato – serve al solo scopo di creare confusione e occasione di infiltrazione. Esattamente ciò che abbiamo ritrovato recentemente tra le parole d’ordine dei “fascisti del terzo milennio” di Casa Pound e nel loro retorico “né rossi, né neri, ma liberi pensieri”; e in quella strategia di gestione del conflitto politico che fu invocata ed evocata in quella che è stata una delle ultime interviste dal Presidente Cossiga: “Maroni dovrebbe ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.
Quella degli opposti estremismi, dei rossi e neri che si sarebbero dovuti unire contro lo stato democratico, è una teoria storica semplicemente ridicola; soprattutto non è qualcosa che appartiene alla storia di Roma, che invece ha sempre avuto un antifascismo militante molto radicale ed esclusivo. Durante la Resistenza sono morte migliaia di persone in nove mesi, cosa che non è accaduta in nessun altra città italiana e in nessun altra capitale europea. A questo schema semplice, alla parificazione tra gli opposti estremismi, non può essere ridotto né quel periodo della storia d’Italia né la vicenda Verbano, che invece mostra notevole complessità.

Una storia, quella di Valerio Verbano, che interseca in qualche modo il contesto politico-giudiziario dell’epoca. Delle indagini sulla sua morte se ne cominciò ad occupare un giudice, Mario Amato, che di lì a qualche mese, il 23 giugno 1980, venne ammazzato in Viale Ionio mentre, da solo e senza scorta, aspettava l’autobus a una fermata. Era solo il giudice Mario Amato anche e soprattutto professionalmente. Fu lasciato da solo a lavorare in quel “porto delle nebbie” che era la Procura di Roma, alle prese con seicento fascicoli; ma, nonostante ciò, riuscì ad esempio a cogliere l’importanza di ricollegare all’area della destra eversiva una serie di fatti non rivendicati – come rapine di autofinanziamento, furti di macchine, scambi di documenti rubati –: fatti che, incrociati tra loro, potevano portare alla scoperta degli autori delle azioni politiche rivendicate. Studiò la documentazione di Verbano, e dispose un certo numero di arresti nel mondo neofascista. Riuscì quindi a portare avanti un’attività di contenimento, fino a quando i neofascisti romani ne colsero la pericolosità e l’intelligenza, e lo uccisero.
Il racconto della vicenda Verbano, che sommariamente leggete in queste righe, nelle nostre intenzioni vuole porre un interrogativo che consenta di capire cosa sia effettivamente successo quel 22 Febbraio di 32 anni fa. Quella vicenda è un pezzo di storia d’Italia di cui, nonostante la riapertura dell’inchiesta due anni fa, forse non si conosceranno mai i colpevoli. Tocca allo storico quindi, più che al giudice, far luce sull’ennesimo mistero d’Italia. Perche’ la Storia, anche temporalmente, comincia quando finisce il potere, l’applicabilità della giustizia. E tocca dunque allo storico, più che al magistrato, raccontare nella completezza e nella totalità i fatti, classificare i dati e gli eventi per argomentare, concludere e verificare – e, nel caso di Valerio, contribuire a far luce su un assassinio irrisolto, su una terribile storia italiana.

Valerio Verbano è anche la storia di una madre che ogni giorno, insieme al quartiere e agli amici del giovane di Autonomia Operaia, continua a vivere nel suo ricordo. Come il 22 Febbraio di ogni anno, quando un corteo di giovanissimi e di compagni che oramai hanno i capelli bianchi sfila per le vie del Tufello e di Montesacro, per ricordare il loro figlio.
La madre Carla, per la prima volta, quest’anno non c’era, costretta in un letto d’ospedale; con la giornata di ieri, con l’affissione di una targa nell’aula magna del suo liceo che recita “alla memoria di Valerio Verbano, studente antifascista del liceo Archimede assassinato per la sua lotta per un mondo di libertà e giustizia sociale“, si è appena conclusa la settimana di mobilitazione in ricordo di Valerio, la cui celebrazione ha compreso anche una festa presso l’Università La Sapienza.

Sotto il liceo c’erano gli striscioni in ricordo di Valerio, giovani liceali con lo zaino in spalla, gli stessi che erano in prima fila anche al corteo dello scorso mercoledì, c’erano quegli amici e compagni di Verbano oramai con i capelli bianchi, che non riescono a nascondere la commozione perché “finalmente c’è qualcosa in questa scuola che ricordi Valerio che in questi corridoi è cresciuto assieme a noi, che qui ha cominciato a fare politica, a interessarsi del mondo e della società”, dicono. C’erano le generazioni che si mischiano, insomma. E c’erano coloro che la memoria di Valerio la tengono viva ogni giorno attraverso attività socialmente rilevanti, nel “suo quartiere”: il centro sociale Astra, Horus Project, il laboratorio Puzzle Welfare in Progress, la Palestra Popolare Valerio Verbano, Action diritti in movimento. Realtà che lottano contro gli sfratti, la speculazione edilizia, i soprusi di ogni giorno, per cercare di regalare un’esistenza migliore ai cittadini e alle cittadine che abitano il municipio quarto, Montesacro, e che vivono nel quartiere Tufello. Esattamente quello che faceva e che avrebbe voluto si continuasse a fare Valerio. E’ forse questo il modo migliore per renderne vivo il suo ricordo.