Cinema dietro le sbarre. “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani

di Salvatore Romeo (’85)

E’ possibile all’interno di un film, piuttosto che un romanzo o qualsiasi altra tipologia di narrazione, porre l’accento su un protagonista od un particolare concetto, senza citarlo mai concretamente? E’ da questo interrogativo che prende il via la recensione di uno dei più belli ed innovativi film, usciti nelle sale italiane negli ultimi anni. “Cesare deve morire” se fosse stato concepito e girato da un regista esordiente, sarebbe stato giudicato come l’”opera prima” di un genio. Ma a deliziarci con tanta poesia d’immagini, suoni e parole, sono due registi di 81 ed 83 anni. Paolo e Vittorio Taviani i loro nomi. E non è la tematica a rendere così poetico questo lungometraggio, ma tutto ciò che non è detto, ciò che è lasciato celato o semplicemente lasciato intuire ed immaginare allo spettatore. Protagonista della pellicole sono le frasi non dette, le sensazioni non esplicitate.
“Cesare deve morire” più che un film è un lungometraggio (ha una durata molto breve per gli standard attuali 76’) in cui sono narrate, con uno stile che i più bravi di me definiscono “docu-film”, le fasi che, fin dai provini, hanno portato alla realizzazione di una delle tragedie più famose di Shakespeare: il “Giulio Cesare”. Ma c’è una particolarità: gli attori tutti (persino il capocomico), sono detenuti del carcere romano diRebibbia. Ed ecco che chi interpreta Cesare è condannato a 17 anni per traffico di stupefacenti, Cassio “fine pena mai” per omicidio in galera dal 1975, Bruto (Sasà Striano) quasi 15 anni per estorsione di stampo camorristico, ed ora attore con partecipazioni in “gomorra” ed alcune fiction. Molte sono le particolarità di quest’opera: innanzitutto la dissonanza cromatica delle parti “recitate”, “dipinte” di un inusuale, per il cinema contemporaneo, bianco e nero e i colori utilizzati per narrare le scene della vita “normale”. Dualismo che si ripropone in tutta la sua forza nel contrasto attore/detenuto: è la realtà che irrompe nella finzione (o viceversa), è il detenuto che diviene attore ed è l’attore che (ri)diviene detenuto, con le sue paure, con i suoi traumi. Memorabile una scena del film in cui i rimorsi di Bruto, per la prossima uccisione di Cesare, si confondono ed amalgamano con i rimorsi del Striano uomo per la perdita di un amico, cui si ritiene causa. E’ questa la forza straripante del film. Descrivere, senza riferimenti diretti, la vita all’interno delle carceri italiane. Gli sguardi tristi e persi dei carcerati al suono delle chiavi e dei chiavistelli, mentre ritornano in cella; la voglia irreprimibile ma repressa di non fissare il soffitto per non pensare “al fuori” in cui il tempo scorre ma senza curarsi di loro. I Taviani hanno avuto il coraggio (o forse l’incoscienza) di raccontare la quotidianità all’interno di un istituto carcerario senza caricarla di vittimismi o facili buonismi che un tale argomento facilmente avrebbe indotto ma, con estrema saggezza e delicatezza, si sono limitati a riprendere “la vita” all’interno di un carcere, lasciando che a trarre le conclusioni fossero le coscienze degli spettatori. “Cesare deve morire” non è un film sul carcere ma sa descriverne in modo vivo la tensione, il conflitto, la violenza.
A margine del film si è acceso un animato dibattito (organizzato da alcune sigle di volontari che operano nelle carceri toscane)che, superando il più possibile i pregiudizi tipici di chi “vive fuori”, ha cercato di svelare quella che è la vita all’interno delle carceri e come i detenuti trascorrono le loro lunghissime “attese”. Potrebbe essere immediato pensare che chi si trovi all’interno di una struttura carceraria, trascorra le sue giornate nel totale “ozio” fisico ed intellettivo; è questa l’immagine che le innumerevoli serie televisive ed i telegiornali, dipingono del carcerato medio: un tipo rissoso sempre pronto al litigio ed al malaffare. La realtà dipinta durante il dibattito ha sfumature del tutto differenti. Per quanto il numero di volontari sia molto esiguo, numerose sono le iniziative che vengono organizzate nelle carceri italiane (soprattutto in quelle piccole o destinate a “reati minori” dove la libertà dei detenuti è maggiore e garantisce un più agevole coinvolgimento): oltre ai laboratori teatrali (come magicamente documentato nel film) vengono organizzate attività professionalizzanti, attività ludiche, ma soprattutto vengono attrezzati dei corsi scolastici. Emblematico è il caso del carcere di Rebibbia che in collaborazione con l’Università “Tor Vergata” ha dedicato un’aula della sua struttura ad un’”ala universitaria”, dove i detenuti più meritevoli (in merito al comportamento in carcere) godono di una libertà maggiore rispetto agli altri.
I problemi maggiori che queste associazioni di volontariato incontrano nelle attività quotidiane, non sono da ricondurre nella scarsa partecipazione dei detenuti o alla mancanza di un clima sereno e di collaborazione, bensì alla richiesta molto superiore rispetto alle loro possibilità. Le domande di iscrizione ai corsi scolastici, organizzati presso il carcere di Pisa, nell’anno 2011 sono state circa 300, a fronte di una effettiva possibilità di soli 30 posti. Dunque nella stragrande maggioranza dei corsi attivati, si è costretti ad eseguire una “selezione dei candidati”, selezione che ha come discriminanti il comportamento in carcere e la durata della pena: per molte attività infatti si predilige che a seguire i corsi siano i detenuti con le pene più alte, in modo che questi possano completare l’intero percorso programmato.
Condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché queste attività possano essere svolte al meglio, è che all’interno delle carceri siano garantiti gli “spazi vitali”, sia in termini di “spazio vita” (ovvero lo spazio a disposizione dei detenuti nelle celle) sia in termini di spazi utilizzabili dalle varie associazione per organizzare le loro attività. Ed è proprio l’assenza di spazi, causata dalla mancanza di strutture sufficienti (causa primaria del sovraffollamento delle carceri), uno dei problemi che affligge le strutture carcerarie italiane. Al sovraffollamento e al successivo caos sono, da quanto emerge dal dibattito, da imputare la gran parte delle tensioni maturate in carcere che, spesso, sfociano in violenza e repressioni (soprattutto a livello razziale, con i detenuti stranieri accusati paradossalmente di occupare, anche qui, i posti riservati agli italiani).
Paradossale dunque risulta come in un contesto globalizzato sia, come nel caso di molti gruppi che lavorano e partecipano alla “vita al di fuori del carcere”, la mancanza di spazi una delle richieste che viene maggiormente urlata ed invocata. E forse arrivato il momento di farsi una domanda: godiamo veramente di tutto lo spazio che crediamo di avere o ci accontentiamo delle briciole che la società ci concede?