Ecologia e politica. Intervista a Giorgio Nebbia

di Salvatore Romeo (’84)

Per 45 anni professore di merceologia all’Università di Bari, Giorgio Nebbia è fra i primi studiosi ad essersi interessato di ecologia in Italia. Nel campo dell’utilizzazione delle risorse naturali si è dedicato a ricerche sull’energia solare, sulla dissalazione delle acque e sul problema dell’acqua. Di particolare interesse l’archivio sull’utilizzazione dell’energia solare e sulla dissalazione dell’acqua di mare. Eletto parlamentare come indipendente nelle liste del PCI nel 1983 (alla Camera) e nel 1987 (al Senato), Nebbia si è sempre caratterizzato per un approccio teso a individuare le radici strutturali dello sfruttamento ambientale nel modo di produzione capitalistico. Abbiamo ritenuto perciò necessario ascoltare il suo punto di vista in merito alla questione che sta scuotendo profondamente l’opinione pubblica e la società tarantina. Perché, come in più occasioni abbiamo sottolineato, è quanto mai necessario, qui ed ora, che sul tema ambientale si sviluppi una visione e una progettualità che superi definitivamente le banalizzazioni ricorrenti.

Da qualche tempo anche un certo ambientalismo politico ha iniziato a definirsi “né di destra né di sinistra, ma solo per la Natura”. Le sembra una posizione corretta?

Non so che cosa significhi “ambientalismo” o “ambientalismo politico” e comunque aggettivato. Qui siamo di fronte a lotte che vedono contrapposte due domande di diritti. Da una parte la domanda del diritto al lavoro – ma che non sia pagato con la morte o l’avvelenamento -, la domanda del diritto alla salute compromessa dall’inquinamento dell’aria e delle acque, la domanda del diritto a non essere travolti dalle frane o sommersi dalle alluvioni, la domanda del diritto ad un futuro, compromesso dalle bombe atomiche esistenti nel mondo, dalle centrali nucleari e loro scorie. Dall’altra parte la domanda del diritto a produrre più merci, a diffondere il benessere materiale attraverso la produzione intensiva, a fare soldi, anche a costo di sacrificare qualcuno dei diritti dell’altra parte.

Il cosiddetto “ricatto occupazionale”, attraverso il quale il Capitale cerca di porre in antitesi ambiente e lavoro, ha delle fondamenta reali – ci sono stati cioè casi di chiusura e delocalizzazione di attività produttive solo per ragioni ambientali? E com’è possibile affrontare questa minaccia (più o meno presunta)?

Il rispetto dei diritti alla salute e alla vita può comportare modifiche, anche profonde, dei processi di produzione e di consumo, un aumento dei costi di produzione, ed è facile per il capitale far rilevare che, se si vogliono filtri e depuratori, se si vogliono regolamentare i piani regolatori per salvare ilo bosco, il suolo e le acque, il capitale è costretto ad affrontare maggiori costi o a rinunciare a certe attività e questo comporta, secondo il capitale, la necessità di licenziare i lavoratori o di cercare una localizzazione in posti in cui i lavoratori e i cittadini non abbiano tante fisime “ecologiche”. Dolorose scelte per i lavoratori che spesso sono costretti a rinunciare a quell’altra parte di diritti, alla salute propria e dei familiari.

Un altro modo attraverso il quale il Capitale cerca di proteggersi dalla “protesta ecologica” è il cosiddetto “effetto NIMBY” (“non nel mio giardino”), che induce a localizzare gli scarti delle attività produttive – e i processi più inquinanti – nelle aree politicamente ed economicamente subalterne del mondo (si pensi a cosa avviene in Africa con gli scarti tecnologici dell’Occidente). Da questo punto di vista il caso Taranto è esemplare: si tratta della città più inquinata e con il maggiore siderurgico d’Europa; dove c’è chi immagina di potersi liberare dalla presenza ingombrante della grande industria, ma difficilmente sarebbe disposto a rinunciare ai beni di consumo che hanno alla base l’acciaio (automobili, elettrodomestici ecc.). Come si può affrontare questa contraddizione?

L’effetto NIMBY è una manifestazione delle forme egoistiche e selvagge generate dalla società capitalistica. Qualsiasi guaio è accettabile purché tocchi ad altri, al paese vicino, al paese sottosviluppato. Una volta esisteva un movimento politico e socialista che poneva al centro della vita la “solidarietà”, fra persone, fra classi. Nel nostro caso è vero che occorrono delle merci, patate e conserva di pomodoro, acciaio e frigoriferi, cemento per le case ed energia, perché tali merci liberano da condizioni di miseria e di degrado. Ed è mio parere che sia possibile produrre le stessi merci essenziali con processi che non privino i cittadini dei diritti alla vita e alla salute e al lavoro di cui si parlava prima.

Una soluzione offerta dal capitalismo alle sue contraddizioni di carattere ecologico è la cosiddetta “green economy”. E’ sufficiente una riconversione alle produzioni “verdi” per arrestare la deriva potenzialmente distruttiva del sistema?

Quando sorse la prima ondata di contestazione ecologica, durata all’incirca cinque anni, dal 1968 al 1973, una breve primavera di speranza, il mondo imprenditoriale e il capitale capirono immediatamente dove tirava il vento ed inventarono processi e merci che non compromettessero il loro sacro diritto di produrre più merci e più soldi. Così nacquero le merci e l’economia “verdi”. Volete energia non inquinante? E io – il capitale – so guadagnare vendendo filtri o pannelli solari. Volete meno rifiuti ? Ed io so dove scavare per seppellirli o come bruciarli vendendo anche il calore che si libera. Volete meno mutamenti climatici ? Ed io accetto di pagare qualche soldo ai paesi poveri perché piantino foreste in modo che io, il capitale, possa continuare a bruciare combustibili fossili ed emettere gas serra. E così via.

La conclusione che sembra emergere da un’analisi razionale e globale della questione ecologica è che non può esistere un “impatto zero” in una moderna economia industriale. C’è chi, di fronte a questa constatazione, propone il ritorno a un’economia “frugale” (Latouche e il movimento per la decrescita) – cioè, in sostanza, una regressione delle forze produttive. Le sembra una soluzione opportuna e perseguibile?

No, non esiste una economia a impatto zero. Lo impone il principio di conservazione della massa e quello dell’entropia. Anche qualsiasi processo di riciclo di una merce, carta o plastica, può pure fornire nuova carta o plastica, ma in quantità inevitabilmente inferiore a quella della merce avviata al riciclo. Tutto quello che entra in una famiglia per l’uso quotidiano si trasforma in gas della respirazione e in escrementi – e in bottiglie, plastica e scarpe rotte che non potranno mai ridiventare altre merci utili. E’ possibile auspicare, nel nome dei diritti di cui si parlava prima, una limitazione degli sprechi e dei consumi, una economia frugale, o anche una decrescita – che però non è una cosa gioiosa perché comporta sacrifici e limiti a qualche soggetto. Purtroppo la proposta di “decrescita felice” non specifica che cosa deve decrescere e chi deve essere soggetto alla decrescita. Forse passare da tre telefoni cellulari a testa a uno solo può essere accettabile in una società sazia, ma che cosa può decrescere in un villaggio dove non c’è cibo, dove le donne devono raccogliere l’acqua a chilometri di distanza e portarla al villaggio in bottiglioni sulla testa?

Un’ulteriore alternativa sembra essere in un approccio che prenda in considerazione il sistema economico nella sua globalità, analizzi l’impatto ambientale delle diverse filiere produttive e indaghi cosa, quanto e come produrre per rendere più sostenibili le attività umane… in una parola, una forma di pianificazione?

Una equa e solidale distribuzione dei beni necessari – inevitabilmente prodotti con risorse naturali estratte dai campi, dalle miniere, dai fiumi – è (sarebbe) realizzabile da una società pianificata, in cui un governo (il popolo) decida quante merci produrre, di quale tipo, destinate a chi. Questo presuppone un governo autoritario animato da ideali di solidarietà e giustizia, la cui costituzione richiederebbe una vera rivoluzione e soprattutto una classe dirigente onesta e al servizio del popolo. Una breve stagione, dolorosa per alcuni ma ricca di speranza per altri, si è avuta nei primi anni della rivoluzione sovietica, quando Lenin creò il grande ufficio della pianificazione, il Gosplan, mobilitando scienziati, economisti, ingegneri, agronomi, matematici, per l’elaborazione dei piani. A poco a poco i governanti da classe dirigente si sono trasformati in classe dominante e le regole del di più e del profitto sono prevalse sul “servizio del popolo”.

Concretamente cosa si potrebbe fare qui ed ora per migliorare la situazione ambientale delle nostre società?

Sono un vecchio professore e credo nell’informazione, nello spiegare alle persone lo stato dei problemi, ma so anche che le poche voci di dissenso rispetto al mondo corrente sono sovrastate dall’enorme rumore del potere capitalistico che usa con grande abilità i nuovi potenti mezzi come la televisione. Alcune battaglie possono essere vinte; l’avventura nucleare è stata (un poco) sconfitta perché si è visto che i suoi avvocati hanno costruito delle centrali difettose. La protesta popolare può imporre leggi che costringono a filtrare (un poco) i fumi nocivi di una fabbrica. Anche qui bisogna, a mio parere, combattere le battaglie giuste. Nel caso del siderurgico di Taranto è stato importante ottenere un abbassamento di un poco delle emissioni di diossine, ma la vera fonte di malattie e di tumori sta nelle sostanze cancerogene liberate nella cokeria, nelle polveri metalliche diffuse nell’aria e nelle discariche di scorie che finiscono nelle falde sotterranee e fino nel mare. Una battaglia giusta è pensare ai pericoli a cui sono esposti i lavoratori. Credo che qualche miglioramento si avrebbe nel recupero e nella diffusione di una cultura tecnico-scientifica, merceologica, che aiuti a capire che cosa succede in una fabbrica, in un campo coltivato, in una discarica; quali materie entrano e escono, quali sono nocive, come circolano nell’ambiente. Questa è ecologia davvero.