Un’altra Taranto era possibile. A colloquio con Pinuccio Stea

di Salvatore Romeo (’84)

“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” Non sempre – anzi, quasi mai – il desiderio di Holden Caufield è realizzabile. Ammetto quindi di essere stato fortunato: finito di leggere l’ultimo libro di Pinuccio Stea, “Taranto da Lorusso a Cannata (1971-1982)” (ed. Scorpione), mi sono precipitato al telefono per sentire l’autore. Non è stato difficile ottenere un incontro, da cui è venuta fuori la “chiacchierata” che potete leggere di seguito. Questo libro di Stea è l’atto conclusivo di un percorso di ricostruzione della politica cittadina nell’ultimo dopoguerra sviluppatosi, a cominciare dal 2006, attraverso altre quattro pubblicazioni. Era partito da Cannata e dall’epilogo delle giunte di sinistra negli anni ’80 il nostro autore – già autorevole dirigente della sinistra tarantina (prima PCI, poi PDS e DS) – e a Cannata ritorna, quasi a voler segnalare il valore di spartiacque di quell’esperienza politica per la nostra comunità: il segno di quello che avrebbe potuto essere – e non è stata – la terza città più grande del Mezzogiorno continentale. Lo straordinario merito di quest’ultima fatica di Stea consiste dunque nel riabilitare dalla damnatio memoriae una Taranto che ha provato a immaginarsi (e a diventare) città europea, affrontando con convinzione i nodi del suo sviluppo squilibrato. Ecco che dalle macerie emerge allora una città combattiva, che non accetta la subalternità alla grande industria, un movimento operaio forte e consapevole, avanguardia del processo di trasformazione, una società civile vivace e aperta alle suggestioni e alle influenze del mondo esterno. Una Taranto quasi irriconoscibile e inaspettata. E viene allora da chiedersi cosa sia successo non solo alla città, ma alla sua coscienza collettiva negli ultimi venticinque anni: un processo di “restaurazione”  sembra avere infatti rimosso completamente il ricordo di quella Taranto “ribelle”. Senz’altro nessuno della mia generazione è consapevole delle esperienze che in essa si svilupparono. E allora Stea – che, da protagonista di quei fatti, ha vissuto sulla sua pelle la sconfitta – si presenta, soprattutto agli occhi dei più giovani, nella forma dell’”Angelo della Storia” descritto da Walter Benjamin: “Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi.” Un’opera che trasforma la storiografia in pratica di resistenza, rivelando gli altri mondi possibili che non si sono mai realizzati per via del prevalere di certi interessi su altri nella continua lotta fra classi che chiamiamo Storia. Ma illustrando il panorama di macerie e mostrandogli la volontà delle donne e degli uomini che hanno provato a cambiare la vita, l’autore suggerisce a uno spettatore sempre più cosciente un imperativo ineludibile. Ricostruire.

Iniziamo con la questione ambientale. A differenza di quello che comunemente si pensa, a Taranto una sensibilità “ambientalista” emerge già dai primi anni ’70, come reazione all’ipotesi di raddoppio del siderurgico. Questa ispira azioni politiche conseguenti: addirittura il sindaco dell’epoca, il democristiano Lorusso, non concede a Italsider l’autorizzazione per l’ampliamento del porto…

A questo proposito si dice che il raddoppio dell’Italsider venne fatta con una licenza edilizia “in precario” come quella che viene abitualmente concessa ai circhi. Ed è così, anche se bisogna aggiungere che in realtà questo fu il frutto di una battaglia politica: appena Italsider iniziò a fare, abusivamente, la colata a mare per il porto, Lorusso rifiutò di concedere qualsiasi autorizzazione. Per questo fu richiamato dall’allora Presidente del Consiglio, Emilio Colombo, che risolse la questione con un decreto ingiuntivo; e fu in base a questo che il Comune si trovò costretto a concedere la licenza in precario.

Una sorta di legge “ad aziendam”…

Peggio: un decreto! E sicuramente quella vicenda incise nella scelta di Lorusso di non ripresentarsi alle elezioni successive e in seguito di uscire dalla Democrazia Cristiana…

Schierato in difesa dell’ambiente c’era un arco vastissimo, che comprendeva le amministrazioni comunali, forze politiche che spaziavano dalle sinistre a pezzi della DC, i sindacati e associazioni come Italia Nostra, l’ARCI… E’ una smentita clamorosa della “vulgata”, secondo la quale per cinquant’anni tutta la società tarantina sarebbe rimasta asservita alla grande industria e solo ora comincerebbe a “rinascere”. E invece il libro ci ricorda una conflittualità fortissima. Addirittura il Comune che si costituisce parte civile nei primi processi contro l’inquinamento…

Certo. Per quanto riguarda le forze politiche e sindacali, bisognerebbe ricordare che una delle più grandi manifestazioni della storia di Taranto fu quella contro le “morti bianche” all’Italsider. Il Comune, con sindaco Cannata, si costituì parte civile in processi per inquinamento che si conclusero con la condanna di Shell [all’epoca proprietaria della raffineria, ndr], Cementir e Italsider contemporaneamente. E il pretore che accolse la costituzione di parte civile dell’amministrazione Cannata era Franco Sebastio, l’attuale Procuratore della Repubblica.
In generale va detto che, a differenza di quello che avvenne con il primo insediamento del siderurgico – rispetto al quale tutte le forze politiche e sociali si trovarono d’accordo –, l’ipotesi di raddoppio venne accolta in tutt’altra maniera. La contrarietà di una parte delle classi dirigenti locali si basava su alcune questioni fondamentali. In primo luogo, si poneva il problema della “disoccupazione di ritorno”; cioè che fine avrebbero fatto i lavoratori impiegati nel raddoppio alla fine dei lavori? In secondo luogo, c’erano forti perplessità di natura propriamente ambientale – perplessità che videro l’emergere di un intreccio fra movimento operaio, all’epoca molto attento alla salute e sicurezza dei lavoratori, e forze culturali della città. Infine, c’era il problema delle ripercussioni che avrebbero subito le altre attività produttive, a cominciare da quelle legate al mare (pesca e mitilicoltura).

E c’era anche la questione del porto, in cui il dilemma era: autonomia funzionale – cioè controllo totale da parte dell’azienda – o gestione pubblica?

A questo proposito ho riportato il documento integrale della segreteria della CGIL in cui veniva espressa una ferma opposizione rispetto all’ipotesi di autonomia funzionale. La posizione era chiara: quel tipo di porto intanto era invasivo e poi non aveva nessuna conseguenza positiva per le piccole e medie aziende locali.

Oltre all’opposizione emersero anche delle contro-proposte?

Sì. Per esempio ho riportato una dichiarazione di Roberto Traversa, dirigente PCI dell’epoca, in cui si diceva in sostanza: “se proprio il raddoppio si deve fare, perché non si orienta lo stabilimento verso Massafra, allontanandolo così dalla città ?”. Ma evidentemente c’erano di mezzo interessi ben corposi, che orientarono nel modo che sappiamo la direzione dell’ampliamento sviluppo dello stabilimento.

La cosa interessante è che queste posizioni riuscivano ad avere un’eco nazionale…

Gli anni ’70 furono un momento in cui davvero le forze più dinamiche della città provarono – e in parte riuscirono – a far uscire Taranto dalle secche municipaliste: Italia Nostra, ARCI, il PCI, il PSI, le organizzazioni sindacali organizzarono grandi iniziative di respiro nazionale sul rapporto fra industria e ambiente, insieme ad altre che delineavano un ruolo nazionale ed europeo per Taranto.

Concluso il raddoppio, nel 1974, le previsioni sulla disoccupazione di ritorno si rivelano fondate e si avvia allora la “vertenza Taranto”…

Di fronte alle migliaia di lavoratori che in quel momento rischiano di essere rimandati a casa si cerca di riaffermare un concetto che era stato sostanzialmente sconfitto negli anni ’60: introdurre elementi di diversificazione nell’economia della città – il tema di cui stiamo discutendo ancora oggi, nel 2012! La prospettiva era innovativa non solo nel merito ma anche nel metodo: la “vertenza Taranto” fu davvero un momento di discussione che coinvolse il territorio – gli stessi consigli comunali della provincia vi presero parte. L’idea era di non giocarsi la partita “in difesa”, cercando di dare semplicemente lavoro alle migliaia di disoccupati del raddoppio, ma di “contrattaccare” perseguendo lo sviluppo di altri settori produttivi: si pose dunque il tema del rifinanziamento dell’agricoltura, del rilancio delle piccole e medie imprese…

La vertenza parte con queste grandi ambizioni, ma si conclude con esiti assolutamente minimalistici: alla fine quei lavoratori vengono riassorbiti in parte dall’Italsider – e dal suo appalto – e, in gran parte, dall’edilizia…

Purtroppo è così. Il problema fu che a quell’impostazione della vertenza non corrispose una risposta complessiva da parte del governo nazionale, né un ruolo attivo della Regione Puglia. Quello che riferiscono i dirigenti dell’epoca è che a livello governativo ci si trovava sempre di fronte a “cambi di interlocutore”: i sottosegretari addetti alla vertenza cambiavano ogni sei/sette mesi. E le conseguenze di questa conclusione furono molto gravi: da una parte, l’elefantiasi della pianta organica dell’Italsider; dall’altra, l’espansione incontrollata dell’edilizia.

A proposito di edilizia, in quegli stessi anni si conclude in maniera un po’ paradossale la vicenda della costruzione del Ponte Punta Penna: Antonio Romeo, del PCI, aveva proposto di realizzarlo in acciaio, sfruttando la produzione dell’Italsider – prospettiva che avrebbe sollecitato il sorgere di imprese di trasformazione dei prodotti siderurgici sul territorio –, ma si decide di farlo in cemento…

Rispetto al progetto di Romeo fu determinante, nel suo non recepimento, l’opposizione dei costruttori tarantini. La ditta che vinse l’appalto per il ponte in cemento fu la Grassetto di Padova, che naturalmente poi utilizzò il subappalto alle aziende edili locali. La vicenda in effetti è paradossale perché a Genova la soprelevata fu costruita con l’acciaio prodotto a Taranto.

E questo ci porta alla questione del piano regolatore. Ma prima di affrontarla nel merito sarebbe interessante soffermarsi sul rapporto fra questo e l’industrializzazione: a Napoli il piano ebbe il merito (o demerito, a seconda dei punti di vista) di bloccare l’espansione del centro di Bagnoli, mentre a Taranto questo non avvenne. C’entra il fatto che nella nostra città il piano – che comunque prevedeva un vincolo contro l’ulteriore espansione dell’area industriale – venne approvato, con clamoroso ritardo, solo nel 1974, dunque a raddoppio ultimato?

Anzitutto bisogna distinguere il piano regolatore urbano da quello, relativo all’area industriale, dell’ASI. Su quest’ultimo lo scontro fu feroce – addirittura l’opposizione di sinistra chiese la chiusura del consorzio – e riguardò proprio la questione del porto. Riguardo al piano regolatore urbano, i ritardi furono determinati dall’intreccio di due motivi fondamentali: in primo luogo, le stesse forze che governavano l’ASI – e che dunque avevano un’idea di sviluppo basata sulla “monocultura industriale” – stavano anche all’interno della giunta comunale; in secondo luogo, tutti gli anni ’60 e l’inizio dei ’70 erano stati caratterizzati da una sostanziale deregulation urbanistica – persino teorizzata da personaggi influenti come Angelo Monfredi. Chi era interessato a uno sviluppo di questo tipo non voleva vincoli e quindi osteggiava con forza ogni ipotesi di regolazione urbanistica. Questi settori della società e della politica ottennero risultati importanti: il piano Calza-Bini, varato negli anni ’50, praticamente non entrò mai in vigore, mentre quello successivo, il Barbin-Vinciguerra, fu approvato solo alla metà degli anni ’70. E d’altra parte, l’approvazione fu possibile anche grazie al sostegno dell’opposizione di sinistra in Consiglio, dal momento che i principali oppositori il sindaco Lorusso li aveva all’interno del suo stesso partito e della sua giunta. E si tenga presente che il via libera al piano da parte della Regione arrivò solo nel ’78!

Ma le opposizioni e le difficoltà operative continuarono anche dopo l’approvazione del piano. Da una parte l’abusivismo “spontaneo” degli abitanti di Talsano, l’invio di una quantità enorme di esposti contro il piano stesso, dall’altro vicende di grave corruzione amministrativa come nel “caso Falcone”, qualche contrasto con le forze armate – come l’Aeronautica che in Mar Piccolo aveva importanti insediamenti – ed infine anche scelte politiche sbagliate – come la lottizzazione delle aree “Sestante”, “La Casa” e “Taranto 2”…

Uno dei punti caratterizzanti il Piano Barbin-Vinciguerra – che riprendeva una delle impostazioni fondamentali del Calza-Bini – era che la città avrebbe dovuto espandersi attorno al Mar Piccolo. La città invece se ne è andata in un’altra direzione. La lottizzazione del “Sestante”, “La Casa” e “Taranto 2” fu, a mio parere, un grave errore: praticamente esse si rivelarono come il cavallo di Troia per abbattere il limite urbanistico che il Barbin-Vinciguerra aveva posto, cioè la Salinella. Ma ciò fu reso possibile dal sostanziale compromesso che si era raggiunto in sede di approvazione del piano stesso: originariamente questo poneva un vincolo contro l’estensione della città in direzione Sud Sud-Est, ma la Democrazia Cristiana al suo interno aveva delle forti opposizioni a questa opzione, che trovavano eco anche in altri partiti alleati alla DC stessa. La sintesi che si trovò fu: “sì all’espansione verso Nord, ma non in maniera rigida ed univoca”. Ed è questa la matrice che continua a condizionare le politiche urbanistiche ancora oggi. D’altra parte, se ben riflettiamo, le costruzioni di via Alberto Sordi non hanno forse svolto un’analoga funzione di “testa di ponte” rispetto alla variante Salinella ?

Una responsabilità grossa in questa evoluzione la ebbe le giunte di sinistra, dal momento che furono lei a varare quelle lottizzazioni…

Assolutamente sì. Penso che quelle lottizzazioni siano state il più grosso errore della giunta di sinistra. Ma, non certo per minimizzare, è giusto però dire che quell’errore fu reso possibile dal compromesso, cui facevo riferimento prima, che si raggiunse nella definizione del piano regolatore, prima dell’avvento della giunta di sinistra.

All’interno della questione del Piano Regolatore si inserisce il Piano di risanamento della Città Vecchia (Piano Blandino), approvato nel 1971, considerato uno dei migliori d’Europa…

A proposito del Piano Blandino bisogna però fare un passo indietro. Si era partiti con l’intenzione di far fare a Barbin e Vinciguerra il piano regolatore dell’intera città, ma in seguito la parte relativa alla Città Vecchia fu scorporata. A questo proposito si registrò la posizione critica del PCI, espressa in Consiglio da Enzo Pollicoro, che giustamente rilevava come fosse incoerente considerare a parte una componente dell’assetto urbanistico; ma lo scorporo alla fine fu fatto. In ogni caso, il piano era in sé straordinario, ma aveva una debolezza di fondo: mentre si ribadiva l’idea di recuperare la Città Vecchia, il resto della città continuava ad espandersi – in maniera quasi anarchica – lungo le periferie.

Nel ’75 abbiamo poi il crollo di Vico Reale e scoppia l’emergenza Città Vecchia: fu quello il momento in cui si innescò l’esodo dal borgo antico o era una tendenza già in atto, che fu rilanciata da quell’evento ?

La tendenza all’abbandono era stata messa in moto negli anni ’50 con la costruzione del quartiere CEP alla Salinella, dove andarono ad abitare soprattutto famiglie della Città vecchia; Vico Reale fu un evento sicuramente cruciale, in quanto già coi primi interventi che seguirono l’approvazione del Piano Blandino si era iniziato il recupero di alcune zone della Città Vecchia con l’idea di riportare all’interno del quartiere la gente, le attività produttive tradizionali, invertendo così la tendenza in atto. Si consideri, tra l’altro, che col Piano Blandino era stata vinta una battaglia importante contro chi voleva fare della Città Vecchia una zona per il divertimento o il passeggio del resto della città, con annesse forme di speculazione più o meno invasive. Con il crollo di Vico Reale si determinò purtroppo una situazione di estrema emergenza, che mise in crisi questo processo, ma non lo annullò del tutto…

Però l’industrializzazione massiccia poneva un elemento di contraddizione stridente rispetto a questa ipotesi di recupero…

Certo. Ma, infatti, l’idea di recupero fu ripresa dopo il crollo di Vico Reale dalla giunta di sinistra nel quadro del progetto di diversificazione produttiva sotteso alla battaglia della “vertenza Taranto” – che la stessa giunta stava nel frattempo conducendo. L’idea era di ridefinire il Mar Piccolo come centro produttivo: in questo quadro si costituì per esempio la cooperativa di pescatori “Città Vecchia”, che tentò di realizzare quello che in anni successivi hanno realizzato in Giappone: l’allevamento del pesce in vasche posizionate nel mare.

Esperimento che però fu osteggiato…

Praticamente gli mossero contro di tutto: denunce, ingiunzioni… Perché il Mar Piccolo continuava ad essere giurisdizione del Centro Ittico campano, che nel frattempo era diventato agenzia immobiliare e continuava ad affermare e difendere l’idea di uno sviluppo monoculturale. Oltretutto i soci della cooperativa erano in gran parte comunisti, mentre il Centro Ittico era presieduto da Leonardo Paradiso, esponente della DC; per cui c’entravano e furono decisivi anche motivi politici.

C’entrava forse anche il fatto che il Mar Piccolo fosse da sempre lo scarico dell’Arsenale…

Ufficialmente no…

Altra opportunità che sembra emergere agli inizi degli anni ’70, ma che poi a sua volta naufraga è quella dell’Università. Venne costituito il Consorzio Universitario Jonico, ma subito si scontrarono due posizioni: chi voleva da subito l’Università pubblica – la sinistra e il movimento studentesco – e chi invece era disposto ad accettare, come primo passo, la nascita di una Libera università…

A questo proposito penso, a posteriori, che si giocò un confronto positivo da un punto di vista culturale, ma con forti venature ideologiche. La posizione della sinistra e degli studenti era giusta in linea di principio, ma alla lunga forse determinò le condizioni perché non se ne facesse niente del progetto università. Questo perché già il sindaco Curci, che fu tra i promotori del CUJ alla metà degli anni ‘60, all’interno della sua coalizione aveva un’opposizione da parte dei settori più arretrati delle classi dirigenti, che non volevano affatto l’università. Di conseguenza, la posizione della sinistra tarantina portò il Consiglio comunale a prendere atto che non c’erano le condizioni politiche per realizzare un insediamento universitario e a porre quindi una sorta di pietra tombale, rimossa solo dopo molti anni. Forse una posizione diversa della sinistra, più duttile e meno ideologica poteva portare a raggiungere un primo obiettivo su cui innestare uno sviluppo successivo della piattaforma rivendicativa per giungere all’Università statale.

L’attività sotto molti aspetti meritori della giunta di sinistra inizia a conoscere qualche difficoltà dopo le elezioni politiche del ’79. Quanto ha inciso la mutazione del quadro politico nazionale sull’esperimento amministrativo che si tentò a Taranto in quegli anni ?

Molto. La giunta Cannata nasce minoritaria nel 1976, sull’onda di tre grandi questioni: il referendum sul divorzio – che sostanzialmente segnala la fine della formula del centro-sinistra –, le elezioni del ’75 – con la forte avanzata del PCI – e poi le amministrative del ’76, in cui Taranto consegnò al Partito Comunista uno dei migliori risultati dell’intero paese. In questo contesto viene delineandosi la tendenza che porterà ai governi di unità nazionale. Personalmente pongo il punto di svolta della Storia d’Italia nell’uccisione di Moro e già con le elezioni del ’79 le stesse prospettive del PCI cambiano: si punta alla fuoriuscita dalla formula dell’unità nazionale e si inizia a parlare di alternativa democratica. D’altra parte i socialisti, con la segreteria Craxi, puntano a scompaginare le carte e avviano una forte concorrenza nei confronti del PCI per stabilire un rapporto privilegiato con la Democrazia Cristiana.
In definitiva, queste vicende incisero profondamente sull’azione della giunta Cannata: se nella prima fase questa aveva avviato politiche assolutamente innovative, per esempio nel campo dell’edilizia scolastica e nei rapporti con la grande industria, a partire dai primi anni ’80 si inizia a percepire un certo affanno. La DC si fa più aggressiva, mentre i craxiani del PSI pretendono un sindaco socialista e finalmente nel 1985 arrivano ad ottenerlo, con l’accordo su Guadagnolo. Operazione che, iniziata nell’alveo della coalizione di sinistra, si concluse – per imposizione dai vertici nazionali di alcuni partiti che componevano la coalizione di governo nazionale– con l’estromissione del PCI. Ma questa è un’altra Storia…

Non molto diversa da quella dei nostri giorni, a ben vedere…