La crisi conviene (a qualcuno)!

di Salvatore Romeo (’85)

Ho un augurio da fare alla Nazione, che l’Italia non vinca i campionati europei di calcio. No, non crediate ch’io sia un simpatizzante leghista, ma è ancora impresso in me il ricordo di cosa accadde quando l’Italia si fregiò del titolo di “Campione del Mondo”. L’effetto di soddisfazione causato dall’ingente rilascio di dopamina (ormone del “piacere”), dovuto alla vittoria degli europei, farebbe svanire di colpo le ansie e le frustrazioni che da mesi il governo Monti elargisce con dovizia ad intervalli regolari (quotidiani). Si dissolverebbero come per magia,  preoccupazioni ed “incazzature” per il posto di lavoro che non si trova, per le bollette scadute ancora da pagare, per il prezzo  della benzina che saltello dopo saltello si sta allineando a quello del vino. Non ci sarebbe da meravigliarsi, se venisse dimostrata una correlazione positiva tra l’incremento del consumo di vino e la riduzione del consumo di derivati del petrolio.

Se venisse fatto un censimento delle parole utilizzate giornalmente nei discorsi degli italiani, sicuramente la parola “crisi” ne uscirebbe in rapida espansione. No, non pensiate che il bagaglio di termini degli italiani  , già abbastanza risicato, si stia restringendo. E’ solo che tutto ciò che risulta come problema o fastidio, viene ormai ricondotto a quell’amaro “pharmakos” che è la crisi: se il treno non passa è colpa della crisi; se le bollette aumentano senza soluzione di continuità è colpa della crisi, se la nonna sembra più vecchia sarà sicuramente colpa della crisi. “Toccante” è stato un servizio del Tg2, il cui tema principale era il “cambiamento delle abitudine dei PIU’ ABBIENTI in periodo di crisi”. Il concetto che ne esce è chiaro: se la “crisi” vi fa piangere, non crediate che i ricchi ridano; sono costretti ad indossare i loro vestiti eleganti anche più volte durante il mese (i testi del servizio narrano, più o meno, gli stessi concetti).

Ciò a cui si assiste è una personificazione che è al tempo stesso “spersonificazione” del concetto di crisi: nell’immaginario della gente assume sempre più le sembianze di una “nube tossica” , una coltre che si staglia tra le persone avvolgendole, togliendone il respiro. Partiamo da un concetto: la crisi “giornaliera”, ovvero quella di cui noi tutti avvertiamo la presenza, è dettata soprattutto dalla drastica diminuzione del potere d’acquisto. E ciò ci fa sentire più poveri. Ovviamente la crisi e le sue conseguenze, si accentua tra i nuclei familiari che non possono godere dell’unica fonte certa di denaro: non il superenalotto, ma il lavoro. Ed di disoccupati l’Italia ne è così ricca che potrebbe essere il primo paese al mondo per esportazione. Questo perché non sarebbe una “vera” crisi se non ci fosse anche un problema occupazionale.

Il pensiero dei più (me compreso) è configurabile come una sintesi di due sentimenti opposti: rabbia e frustrazione. Il risultato di questa complessa equazione è scontato: ma perché i nostri politici non ci traghettano al dì fuori di questa crisi? Ci sono due possibili spiegazioni:

-          i politici sono incapaci di prendere le giuste decisioni o non hanno il coraggio di ribaltare il pensiero economico “mainstream”

-          i nostri politici non la vogliono risolvere.

E su questa seconda asserzione che si svilupperà il seguito dell’articolo.

E’ di estremo interesse politico e sociale che anche un’autorevole fonte d’informazione economica “di parte” (la parte dei più “forti”) quale il “Financial Time”, scriva a caratteri cubitali che le politiche di “austerity”, professate ed applicate in quasi tutto il vecchio continente, stiano conducendo l’Europa all’implosione. Eppure i farmici contro il malanno sembrano logici anche ai più: sgravi fiscali, investimenti in grandi opere, incentivi alle imprese perché assumano, sono misure ritenute efficaci per creare rapidamente occupazione. I nostri politici però sembrano essere miopi di fronte a tale “banalità”. Forse anche le loro “lauree cum laude” sono state conseguite all’Università “Kristal” di Tirana?

Per provare a dare una spiegazione alla “miopia” degli economisti europei, partiamo dal concetto di margine di profitto, ovvero  “l`ammontare di profitto netto che deriva ad un imprenditore dalla vendita del prodotto, dopo avere pagato tutti i fattori della produzione che hanno contribuito alla sua realizzazione” . Detto in soldoni ciò che guadagniamo è dato dalla differenza di quanto facciamo pagare un bene e ciò che ci è costato. Ci sono due modi per incrementare il margine di profitto:

-          aumentare il prezzo di vendita; questa è la condizione meno perseguibile, perché, come insegnano nei primissimi corsi di micro-economia, il prezzo di vendita di un bene non dovrebbe mai essere superiore a ciò che il mercato (le singole persone) è disposto a pagare per quel bene.

-          ridurre i costi di produzione; è il passaggio fondamentale di questa analisi.

Normalmente i costi di produzione sono influenzati, tra le altre, da due macro categorie di costo: i costi derivanti dalle inefficienze strutturali che un‘ azienda/città/nazione “si porta dietro” e dal costo del lavoro, inteso principalmente composto dal costo dello stipendio, il costo delle tasse da versare allo Stato, da cui quest’ultimo, dovrà ricavarne i contributi pensionistici.

Dunque, qualora si volesse abbassare il costo di produzione di un bene, la prima voce sulla quale far leva sarebbe senza dubbio agire sul costo del lavoro, ovvero abbassare i già risicati stipendi, che i lavoratori italiani (ma anche greci, spagnoli, portoghesi, etc.) percepiscono. Ma come agire, evitando che le popolazioni coinvolte si ribellino? Il “piano” attuato è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare, infatti, a ciò che sta accadendo in Italia negli ultimi mesi, ovvero al tentativo, appoggiato sia a destra sia a sinistra salvo sparute eccezioni, di precarizzazione dell’intera forza lavoro italiana. La riforma dell’articolo 18 proposta dal ministro Fornero sotto precisa dettatura da parte della Banca centrale europea, consentendo un più facile “turn-over”, ha lo scopo di far accrescere nei lavoratori la sensazione di avere costantemente “all’altezza del collo” la scure del licenziamento. Ciò come prima conseguenza provoca, anche indirettamente, una rinuncia quasi totale dei propri diritti, sacrificati sull’altare “del posto di lavoro”.

D’altronde lo Stato, come l’attuale pensiero economico “mainstream” prevede, non interviene mai direttamente nelle questioni “private”, ovvero non provvedendo al finanziamento delle realtà produttive costrette alla chiusura, impedisce il salvataggio di decine di migliaia di posto di lavoro. Quella che si viene a creare è dunque una prospettiva in cui il lavoro perde i connotati di diritto, in luogo di una visione, per usare un termine economico, di “risorsa scarsa”. Tutto ciò conduce i lavoratori italiani ad essere non più fautori del proprio destino lavorativo, ma a dover subire, piuttosto che accettare, le condizioni dei “padroni”. Proprio in questo passaggio nasce il vantaggio competitivo: i lavoratori, in guerra tra loro per accaparrarsi la risorsa scarsa (il lavoro), darebbero vita ad una guerra al ribasso che li condurrebbe ad accettare salari ben più bassi degli attuali. Il risultato di questo diabolico piano, sarebbe, ad un’analisi superficiale, il più basso costo della produzione. Il risultato reale, quello della creazione di due Europa, in cui quella del “sud”, (formata da Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, guarda caso gli stati attualmente più deboli ) avrebbe esclusivamente il compito di fornire mano d’opera a basso costo per gli stati del nord (Germania e Francia).

Qualcuno più smaliziato potrebbe pensare che ciò che è descritto in questa “Cassandrica” previsione non sia realizzabile, perché, se ci fosse un impoverimento della fascia della popolazione numericamente maggioritaria, si ridurrebbe drasticamente la domanda dei beni prodotti seppur ad un costo più basso (ed dunque con la possibilità di essere venduti ad un prezzo più basso). Questo concetto, seppur corretto, è facilmente contestabile ipotizzando un probabile “spostamento” del mercato d’interesse: non più l’Europa (o quanto meno l’Europa del sud) ma i mercati emergenti nel resto del Mondo. A valorizzare questa teoria, è l’impegno che il governo Monti sta investendo, per rendere appetibile il nostro Paese alle multinazionali estere: oltre la già citata mano d’opera specializzata a basso costo, l’Italia presenta la possibilità di creare redditizi collegamenti ferroviari (con il nord Europa, giustificando così gli investimenti per la TAV) e collegamenti navali, tali da renderla un punto strategico per i commerci internazionali.

In conclusione, quello che si prospetta è la svendita del nostro Paese, dei nostri diritti e del nostro futuro, da parte di un governo “tecnico” (non legittimato dal voto del popolo) a cui i principali partiti politici fanno da complice “sponda”, versi i gruppi industriali che nei prossimi anni decideranno di investire in Italia, traendo indubbio vantaggio dalla povertà indotta alla popolazione. Ancora una volta chi ci guadagna non è il più debole.