Appunti sul calcio che viene: gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano

di Francesco Ferri

 Il giugno è un mese ostico: difficile prevederlo, anticiparlo, comprenderlo. A Taranto però il mese di giungo, da ormai un ventennio, è altro: qualcosa di ben codificato, cadenzato, ritmato. É il periodo dell’anno nel quale, con spietata precisione, tornano a manifestarsi gli incubi più remoti del tifo calcistico tarantino, e i ragionamenti intorno a volenterosi terzini, allenatori sapienti e attaccanti distratti lasciano il posto ad un linguaggio strano, non sportivo e non comune, colmo di fideiussioni, messe in mora e libri contabili.

Anche quest’anno giugno non lascia scampo: archiviata la dolorosa sconfitta con la Pro Vercelli, il calcio a Taranto sembra avviarsi, lentamente, verso l’ennesimo salto in dietro.

Nel momento in cui si scrive la corsa contro il tempo per provvedere ad iscrivere la squadra al prossimo campionato di lega pro sembra essere più l’occasione di ricerca visibilità per una serie di personaggi in cerca d’autore che un tentativo ragionato e misurato per salvare il salvabile.

In ogni caso, qualunque sia il futuro della squadra calcistica dello Ionio, forse è tempo per provare a riflettere collettivamente, intorno ad una serie di elementi strutturali del calcio a queste latitudini, assumendo però una prospettiva particolare.

Per una volta occupiamoci di noi, quelli di sotto del pallone, quelli che soffrono, esultano, tifano, si incazzano, sulla spinta di una passione collettiva che, malgrado le continue delusioni, resta viva, presente, tangibile. Occupiamoci di noi quindi, provando a capire cosa abbiamo desiderato ed evocato in questi anni, e quale terreno culturale abbiamo contribuito a far sorgere intorno al calcio ionico. Proviamo anche a ragionare in termini di responsabilità collettive nostre, che probabilmente non sono cosi marginali come sembrano.

Ex presidenti strafalliti che millantano risorse economiche e rinnovati propositi etici. Grandi gruppi industriali (grandissimi inquinatori) che ammiccano giusto un po’, il tempo esatto per lasciarsi invocare dal medio tifoso ionico per poi, con soddisfazione, ritirarsi cordialmente. Aziende che come avvoltoi ruotano intorno a quasi tutte le società calcistica in odore di fallimento. In questo torrido giungo tarantino figure e figurine losche si inseguono, si affacciano provando a fiutare l’occasione. Come mai praticamente tutti si sentono cosi liberi di fare e disfare a queste latitudini, incontrando quasi sempre un consenso incondizionato? Taranto sembra non avere, ancora, una memoria storica collettiva, che sia un anticorpo efficace per tenere lontani tutti coloro che, annusando l’aria del mezzo affare e del mezzo inciucio, sguazzano nell’agonia diffusa.

Tantissimi (non tutti, sia chiaro) in queste settimane hanno speso parole possibiliste in merito all’ipotesi del ritorno in riva allo ionio, per esempio, di Pieroni, plurifallito e pluricondannato (per reati del potere) ex patron del calcio tarantino. Di più: sempre in troppi (ma sempre non tutti) continuano ad invocare l’intervento economico della grande industria inquinante, con conseguenze evidentemente disastrose nella costruzione di un immaginario di lotta contro gli inquinatori.

Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine suggerisce Ismail in Altaj dei Wu Ming. Proviamo a rifletterci: se i possibili mezzi continuano ad essere i medesimi (speculazione, ricerca di visibilità, gruppi industriali dall’etica inesistente, e cosi via) quanto il fine (il pallone) ce lo sentiamo ancora realmente nostro e quanto, invece, è diventato qualcosa di totalmente diverso, grottesco e menzognero?

In questo magma indefinito di orridi desideri e volontà di potenza calcistica, nel quale la serie B viene evocata quasi come fosse un evento mistico, si iscrivono situazioni inverosimili, tragiche e comiche, proprio perché ancora non c’è un racconto collettivo, forte e preciso, su quali siano le ragioni dei fallimenti (sportivi e non) di questa città.

Non si è mai aperto fino in fondo un dibattito sincero intorno a cosa sia diventato il calcio negli ultimi anni. È finita l’era della vacche grasse, lo ripetono tutti: a Taranto ce ne siamo ancora accorti poco, a giudicare da ciò che continuiamo ad auspicare. Cosa cerchiamo realmente dal pallone: passione, organizzazione collettiva, cuore e coraggio o (apparente) sfarzo, opulenza e desiderio di potenza?

Di certo ci basterebbe davvero poco per capire che non esistono motivi reali (diversi dalla mera speculazione, economica e d’immagine) per i quali un imprenditore (magari che con Taranto non c’entra nulla) dovrebbe accostarsi, rimettendo soldi, al calcio tarantino. L’illusione che ciò possa avvenire è gran parte dei drammi calcistici tarantino.

Da questo punto di vista l’attesa di un uomo della provvidenza è probabilmente metafora di una città e dei suoi problemi, ed è solo la rappresentazione calcistica di un disagio che risiede altrove, ed è sociale, economico, e politico, e si alimenta nelle fratture di una comunità allo stato attuale molle, slegata, sfilacciata.

In questo momento la possibilità del fallimento, e della reiscrizione della squadra a partire da un paio di categoria più in basso è la possibilità più concreta che si possa realizzarsi.

Il punto decisivo è che probabilmente un salto in dietro (che avrebbe già il merito di aver per ora respinto i vari pericoli Pieroni/Ilva ed Eni/speculatori di varia natura), se accompagnato da un processo collettivo di riflessione, potrebbe addirittura essere una prospettiva positiva, insieme sportiva, sociale e politica, per questa città e per il suo calcio. Sia chiaro: il mero retrocedere di qualche categoria evidentemente non indica, di per se, alcuna prospettiva di cambiamento verso una situazione migliore, se lo sport a queste latitudini girerà intorno a buste paga fuori misura, mancanza di programmazione, assenza di etica dei mezzi.

Però un reset, che implichi anche un ricominciare da sotto, può essere un’opportunità: fondare, ripartire, azzerare, organizzando un ragionamento collettivo nel quale si iscriva un rapporto sano col territorio, valorizzazione dei giovani talenti locali, rinnovato e genuino entusiasmo.

Scopriremmo una serie di elementi interessanti: la passione non ha categoria (ci ricordiamo, per esempio, partite in serie D con tre volte la media spettatori di quest’anno); senza tessera del tifoso (non prevista per i campionati dilettantistici) si vive decisamente meglio e si va in trasferta; biglietti e abbonamenti a prezzi bassi sono decisamente più attinenti alla situazione economica tarantina. E ci accorgeremmo che un calcio più sobrio, più leggero e più a misura d’uomo anche in termini di meri risultati sportivi finisce per risultare sicuramente più efficace: basti pensare ai nomi (Pro Vercelli e Juve Stabia) delle ultime due società che hanno vinto i playoff nella nostra categoria.

Un salto indietro, quindi, senza paura e senza titubanze, può essere utile per azzerare il passato (ventennale) di tradimenti e false illusioni, e può aiutare a costruire un calcio più sociale e popolare (per usare le parole utilizzate da futbologia, progetto per la costruzione di un convegno che sappia raccontare le miserie del calcio contemporaneo e ragioni intorno all’edificazione di un altro calcio http://www.futbologia.org/#/calcio).

In fondo un calciatore lo vedi, ancora, dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, e questi non hanno categoria. E magari, provando a costruire un calcio diverso, avremo anche capito com’è possibile, ad di là del pallone, immaginare una città libera da tutte le fosche figure che le succhiano (letteralmente) la vita. E questa non è un’altra storia.