La catastrofe verde. L’agricoltura tarantina sopravviverà alla crisi?

di Salvatore Romeo

“Il sazio non crede al digiuno”. Lo cantava Matteo Salvatore – straordinario cantautore-contadino – e me lo ripete Vito, di fronte alla Camera del Lavoro di Palagianello. E’ un’espressione emblematica, sottolinea il mio interlocutore, dei rapporti che caratterizzano il contesto agricolo nella provincia di Taranto. Da pochi giorni c’è stata l’alluvione e ancora molti campi, fra Ginosa e Metaponto, sono allagati. In tanti, fra gli agricoltori colpiti, hanno gridato al disastro, ma da queste parti la crisi dell’agricoltura è iniziata da tempo. Qui dove la provinciale si incunea fra fitte file di agrumi il conflitto fra gruppi e interessi diversi diventa sempre più intenso man mano che la crisi si diffonde fra le aziende della zona.

Vito Vetrano è un mio coetaneo, che da anni svolge attività politica nel suo paese. Qualche anno fa è stato fra i fondatori di “Cittadinanza Attiva Palagianello”; alle precedenti elezioni è stato eletto in Consiglio comunale, fra i banchi dell’opposizione, con la lista civica “Insieme per il progresso”. Un impegno che gli è costato caro: un anno fa infatti è stato denunciato dal suo sindaco per la diffusione di un giornalino in cui si criticava l’operato dell’attuale giunta. Ma soprattutto Vito è un bracciante, figlio di braccianti. E nessuno meglio di lui può spiegarci il senso del motto “il sazio non crede al digiuno”.
In realtà si tratta di un principio che rende estremamente difficile ricomporre un quadro d’insieme della situazione della campagna jonica. Bisogna, prima di tutto, capire il punto di vista tanto del “sazio” e quanto del “digiuno” e poi confidare in chi riesce a vedere al di là di questa dinamica (auto)distruttiva.

I “digiuni” sarebbero i braccianti. La loro condizione è fra le più difficili sul piano economico e sociale. In primo piano c’è la questione del salario. Stando al contratto collettivo nazionale, per ogni giornata di lavoro il bracciante dovrebbe percepire 46 euro di salario. Quando gli accordi non vengono del tutto disattesi – nel senso che il proprietario paga il lavoratore in nero, per una cifra nettamente inferiore a quella stabilita dai contratti –, si possono verificare vere e proprie beffe ai danni dei braccianti: il proprietario può infatti riconoscere ufficialmente la “giornata” a 46 euro, pagandone però di fatto 26; a quel punto al bracciante resta poco o niente in tasca, dal momento che le tasse deve pagarle sui 46 euro. Da parte sua il dipendente è costretto ad accettare questo trattamento perché ciò che conta, dal suo punto di vista, è accumulare “giornate”.
Veniamo così al secondo problema dei “digiuni”: quando il lavoro non c’è i braccianti non sono coperti da nessuna forma di cassa integrazione guadagni sul modello di quella valida per i lavoratori dell’industria. Nel loro caso esiste il “sussidio di disoccupazione”, che si misura non in base al salario percepito nell’ultimo mese, bensì facendo riferimento proprio alle “giornate” accumulate fino a quel momento. Per percepire il sussidio bisogna aver totalizzato un minimo di 51 giornate all’anno. In ogni caso, si tratta di un’erogazione annuale (non mensile come la cassa integrazione); e per farsi un’idea della sua capacità di far fronte ai bisogni dei percettori basti pensare che il minimo (con 51 giornate di lavoro registrate) assomma a 600 euro. In definitiva, il reddito lordo annuo di un bracciante che avesse lavorato almeno per 51 giorni all’anno – ammesso che gli venisse riconosciuto il salario stabilito dai contratti nazionali – non raggiungerebbe i 3.000 euro.
La situazione appena delineata è tutt’altro che un’eccezione di questi tempi. Ecco che allora le famiglie si arrangiano come possono: uno degli espedienti più diffusi, per esempio, è la falsa intestazione delle giornate. In breve, se la madre ha accumulato 150 giornate e la figlia 30, la prima chiederà al proprietario di segnare almeno 21 delle sue giornate alla seconda, in modo che anche quest’ultima possa aver diritto al sussidio. Ma, quel che è peggio, è che nell’attuale fase di contrazione dell’occupazione, in generale, e della domanda di lavoro nei campi, in particolare, la concorrenza fra lavoratori si fa atroce. Per contrastare l’erosione del reddito della propria famiglia vanno a giornata anche quelli che hanno da poco perso il lavoro magari in altri settori – e non riescono, a causa della cattiva congiuntura, a reinserirsi in quegli stessi ambiti –; assieme a loro si vedono cassintegrati che sperano di recuperare almeno una parte del potere d’acquisto perso negli ultimi mesi; o anche pensionati che cercano a loro volta di porre un freno alla caduta del reddito delle rispettive famiglie. E così la povertà genera altra povertà, dal momento che la concorrenza reciproca costringe i “digiuni” ad accettare remunerazioni sempre più basse.
L’infimo gradino della scala lo si raggiunge con il vaucher, un’innovazione normativa introdotta dal governo in carico e pensata con riferimento esplicito agli studenti del Nord Italia che, in particolari periodi dell’anno, raggiungono il Trentino o il Friuli per la raccolta delle mele. Il vaucher è un semplice bollino del costo di 6,50 euro che il proprietario può acquistare al tabaccaio. Ceduto al lavoratore per ogni giornata, esso consente a quest’ultimo di vedersi riconosciuti i contributi (pari al costo dello stesso vaucher) per il lavoro svolto. Utilizzato impropriamente quella specie di ticket può fungere da sostituto del contratto di lavoro: il proprietario potrebbe infatti retribuire il lavoratore con il solo vaucher – il quale d’altra parte attesta che la giornata di lavoro è stata svolta, per cui risulta utile ai fini dell’ottenimento del sussidio. In breve, il lavoratore si troverebbe (e di fatto, in certi casi, già si trova) a lavorare per i soli contributi e per qualche centinaia di euro all’anno.
La FLAI-CGIL – il sindacato dei braccianti – da tempo prova a lanciare una vertenza che ponga rimedio all’estrema precarietà che caratterizza la categoria. Fra le principali proposte c’è proprio la creazione di una sorta di “cassa integrazione” per i lavoratori dell’agricoltura. In definitiva, il sindacato propone di dissociare il sussidio dalle giornate di lavoro, stabilendo un’integrazione monetaria mensile per i redditi più bassi. Si verrebbe così a determinare uno standard minimo del salario agricolo medio relativamente uniforme e significativamente più alto di quello corrente. Secondo la FLAI ciò sottrarrebbe una parte dei braccianti al ricatto dei proprietari, che inevitabilmente fa leva proprio sulla disponibilità ad accettare una difformità quasi caotica – ma tendente verso il basso – nel regime retributivo.

Le associazioni datoriali – e i singoli agricoltori – rispondono tacciando di “assistenzialismo” queste richieste. Secondo loro applicando quelle norme i lavoratori potrebbero vivere del solo sussidio, trascurando il lavoro; oltre tutto l’incremento del costo del lavoro danneggerebbe irrimediabilmente un settore che già sta attraversando enormi difficoltà. Questa la posizione dei “sazi” (o presunti tali). In realtà però la loro “sazietà” sta diventando sempre più apparente. La provincia occidentale ne è una chiara dimostrazione. Qui le aziende agricole stentano sempre più a stare sul mercato; da dieci anni a questa parte l’apertura del mercato comunitario alle produzioni dell’est Europa e della sponda meridionale e orientale (Turchia, in particolare) del Mediterraneo ha creato una situazione difficilissima. Il costo del lavoro nettamente più basso vigente in quei paesi – ma anche il dumping fiscale praticato da vecchi partner comunitari, per esempio la Spagna (dove i contributi per i lavoratori della terra sono nettamente più bassi che nel nostro paese) – e il venir meno di ogni residua protezione sui mercati europei ha posto in essere una sfida difficilissima da affrontare per i piccoli e medi proprietari locali. Questi sono stati scalzati dalle imprese maggiori (multinazionali, come la Peviani, o di provenienza barese e campana). La Peviani  ha preso in affitto nelle stesse zone appezzamenti di grande estensione per lunghi periodi (fino a 30 anni), mentre le altre aziende detengono la proprietà di ampi appezzamenti. Sfruttando intensamente le capacità della terra queste imprese riescono a produrre a costi competitivi e utilizzano le produzioni delle proprietà minori come supplementi alla propria offerta nelle fasi di domanda alta. Si tratta di patti di sub-fornitura ad altissimo rischio per i coltivatori. Nel caso della Peviani, per esempio, la grande azienda si limita a coprire il “taglio” (cioè la raccolta) del 2% della produzione complessiva dell’agricoltore indipendente; il resto verrà acquistato solo se la domanda si mantiene ai livelli previsti. Basta dunque anche una lieve oscillazione al ribasso della richiesta perché gran parte delle coltivazioni dei piccoli e medi proprietari finiscano al macero. In questo contesto l’estrema flessibilità dei salari dei braccianti diventa il mezzo prevalente attraverso il quale i coltivatori fanno fronte agli andamenti del mercato. Si tratta tuttavia di un margine di manovra sovente insufficiente. Un problema decisivo per aziende come quelle di cui stiamo parlando è infatti il rapporto con il compratore.
Prescindendo dagli acquisti – come abbiamo visto tutt’altro che affidabili – della grande impresa, gli agricoltori possono raggiungere il mercato solo attraverso una serie di mediazioni successive il cui primo anello dovrebbe essere il “compratore”. Il condizionale è d’obbligo perché spesso nella prassi fra venditore e acquirente viene a frapporsi un “mediatore”, che letteralmente agevola l’incontro fra domanda e offerta. Il proliferare di livelli ulteriori di mediazione commerciale accresce la pressione sulle aziende produttrici, poiché fa lievitare il prezzo al consumatore e genera, di converso, una reazione alla contrazione dei costi. Questa, in una congiuntura come quella corrente dove l’offerta eccede la domanda, viene scaricata quasi integralmente sui produttori “marginali” – quelli che hanno già di per sé difficoltà a stare sul mercato. Per cui diverse aziende, dopo una serie di annate negative, preferiscono cessare l’attività – talvolta sono addirittura costrette a vendere il terreno a prezzi svalutati rispetto a qualche anno fa.
A questo punto si pone il problema di chi compra, che non sempre ha interesse ad investire nell’agricoltura. Anzi, di recente interi ettari di terreno sono stati riconvertiti alla produzione di energia per mezzo di pannelli fotovoltaici e al trattamento di rifiuti attraverso la realizzazione di discariche – è stato persino insinuato che dietro queste ultime operazioni vi sia la mano della camorra. Questa dinamica però è solo uno dei fattori che alimenta un processo di radicale trasformazione del paesaggio e dell’economia della provincia jonica occidentale; l’altro elemento decisivo è la strisciante desertificazione dell’area, causata dallo sfruttamento intensivo della terra da parte delle grandi imprese. Queste concepiscono il terreno al pari di un qualsiasi altro fattore di produzione, anzi: esso costituisce il mezzo di produzione, il cui pieno impiego garantisce livelli di produttività – e quindi rendimenti – elevati. Di qui l’uso massiccio di fertilizzanti, diserbanti e altri preparati chimici, ma anche il mancato rispetto di principi agronomici antichi quanto importanti, come il “maggese” – in sostanza, il terreno non viene lasciato “riposare” per un certo periodo fra una raccolta e una semina, ma viene subito riadattato a una nuova coltura.

Il rapporto fra “sazi” e “affamati” è tuttavia ancora più complicato da un ulteriore livello: i caporali. Nell’immaginario collettivo si tratta della figura più cupa dell’intero universo agricolo, spesso associata a trattamenti brutali inferti ai lavoratori. In realtà una legge recente ha consentito la regolarizzazione di questa figura, nella forma della cooperativa che fornisce al proprietario i “giornalieri” da impiegare sulle sue terre. I caporali sono visti come una piaga tanto dai lavoratori quanto dagli agricoltori: per i primi si tratta di veri e propri “taglieggiatori” del salario guadagnato con giornate di fatica durissima; per i secondi si tratta pur sempre di un ostacolo al raggiungimento dell’utopica situazione del “salario zero”, dal momento che il caporale non solo pretende un profitto, ma in qualche modo regolamenta il rapporto fra datore di lavoro e lavoratore, frapponendosi ad una contrattazione completamente individualizzata.

Il quadro che con Vito abbiamo cercato di riordinare astrae però da tanti piccoli dettagli che invece fanno la realtà quotidiana dei conflitti fra i gruppi e gli interessi. Il bracciante che guarda in cagnesco il suo vicino o persino il familiare – braccianti a loro volta – perché vi trova un potenziale concorrente; il piccolo agricoltore che inveisce contro i braccianti nel modo più aspro; l’invidia che lo stesso proprietario prova per il suo vicino, cui la stagione ha arriso e può così permettersi di ostentare i frutti di una buona vendita, facendo rombare il motore del BMW nuovo nella piazza del paese all’uscita della messa…
Vito mi ricorda Fontamara, il momento in cui i contadini descrivono la loro visione del mondo, ma in questo caso Dio è scomparso; al suo posto c’è però un’entità altrettanto impalpabile: il mercato. Subito sotto non ci sono i principi Torlonia, ma le grandi imprese, le sole ormai in grado di reggere la concorrenza straniera – poiché a loro volta ne replicano le procedure. Un abisso sotto troviamo i piccoli e medi agricoltori, ancora più in basso i braccianti locali; l’ultimo gradino sono i lavoratori immigrati – prevalentemente dall’Europa dell’Est, quasi sempre impiegati a nero. In questa gerarchia il conflitto è iniquamente distribuito: i livelli più alti ne sono praticamente immuni; quanto più si scende tanto più la tensione cresce.
C’è chi ci prova ad invertire la rotta, a raccogliere insieme gli agricoltori locali per fargli fare fronte comune di fronte ai concorrenti più grandi e al mercato in generale. Da qualche anno a questa parte proprio da Palagianello è partita l’iniziativa del “Tavolo Verde”, promossa da Paolo Rubino. Il punto fondamentale su cui insiste l’onorevole Rubino è che senza agricoltura è la fine tanto per i proprietari e quanto per i braccianti. Occorre trovare nuove strade per il rilancio del settore, a partire da investimenti in innovazione soprattutto di prodotto. Gli errori strategici più gravi degli agricoltori sono stati il fatto di non essersi specializzati in produzioni ad alto valore aggiunto e l’aver trascurato quasi del tutto la fase commerciale – il mancato sforzo nella creazione di una nicchia di mercato fortemente selezionata. Un modello alternativo potrebbe passare dalla creazione di un distretto per prodotti “d.o.c.” (nel caso di quella parte di provincia jonica vi sarebbero già le famosissime clementine) da realizzare attraverso il consorzio delle diverse aziende. L’originalità dell’operazione potrebbe consistere in una duplice garanzia: di qualità del prodotto e di qualità del lavoro. Come insegna l’esperienza del mercato equo e solidale, quello che potrebbe essere definito – con espressione a dire il vero ripugnante – il marketing dei diritti funziona come fattore che accresce la peculiarità della merce.

Dopo avermi raccontato in lungo e largo la situazione della sua terra Vito si lascia andare ad alcune considerazioni: “dillo ai tuoi concittadini cos’è davvero l’agricoltura, loro che pensano che da un giorno all’altro al posto dell’ILVA si potrebbero ripiantare gli agrumeti sradicati per lasciare il posto agli altoforni… Cosa ne sapete in città dei problemi delle campagne? Eppure sai quanti sono in tutto i lavoratori che in tutta la provincia lavorano sui campi? 29.000: più di due volte gli addetti dell’acciaieria! Ma il punto è che con le belle parole non si risolve niente: i problemi bisogna conoscerli e affrontarli. Altrimenti ci troveremo fra non molto tutti più poveri… e dipendenti dalla grande industria!”