La resa dei conti

di Roberto Polidori

Siamo alla “resa de conti” del progetto Euro: le elezioni greche potranno velocizzare o ritardare un processo di disgregazione e di impoverimento già in atto per larghe fasce di popolazione europea, ma la sopravvivenza della casa comune resterà un evento remoto se non verranno profondamente rivisti gli equilibri tra nazioni e le politiche economiche tese a calmierare salari e redditi delle classi sociali meno abbienti.

In settimana ha  suscitato scalpore un articolo pubblicato su Manifesto in cui l’autore, il Prof. Sergio Cesaratto, ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Economia di Siena e nostro ospite nel Seminario “Oltre la Crisi”- organizzato nel novembre 2011 in collaborazione con Fisac CGIL Puglia e Taranto e con il Link Taranto – dipinge uno scenario europeo futuro, in ambito economico e sociale, a dir poco allarmante. Poiché lo sport preferito della maggior parte dei media nazionali (carta stampata inclusa) sembra essere quello di cancellare scenari futuri pessimistici onde “aiutare” il parco buoi europeo a sopportare le “inevitabili” misure di austerità, è chiaro che le analisi scientifiche di economisti non allineati alla cacofonia bocconiana di governo sono destinate ad essere tacciate di “catastrofismo” inutile…e tutto questo sebbene analisi precedenti degli stessi economisti di casa nostra avessero previsto con precisione svizzera ciò che sarebbe accaduto.

Rer riportare sul pianeta terra gli dei bocconiani pubblichiamo sotto la traduzione di un inquietante articolo postato su www.socialeurope.eu dal Dani Rodrick, notissimo economista turco attualmente Professore di Politica Economica Internazionale presso la Harvard University negli Stati Uniti – un’università di fama mondiale ritenuta decisamente molto più importante dell’Università Bocconi.

Se proprio non si vuole dare ascolto alle voci non allineate che parlano in Italia, che almeno si dia udienza ad altre voci (accademiche) in giro per il globo….

La fine del Mondo come lo conosciamo*

di Dani Rodrik

Consideriamo il seguente scenario. Dopo la vittoria di Syriza, partito di sinistra, il nuovo governo greco annuncia di voler rinegoziare i termini del proprio accordo [di restituzione dei prestiti, n.d.t] con il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea. Il Cancelliere tedesco Angela Merkel sfodera le pistole e intima alla Grecia di attenersi alle condizioni concordate.

Temendo un imminente collasso finanziario, i depositanti greci corrono in banca per prelevare i soldi; stavolta la Banca Centrale Europea si rifiuta di salvare le banche greche e queste restano senza liquidità. Il governo greco istituisce il controllo dei capitali in uscita e alla fine è costretto ad emettere dracme per fornire liquidità al mercato interno.

Con la Grecia fuori dall’eurozona, tutti gli occhi si voltano a guardare la Spagna. La Germania e gli altri paesi sono inizialmente inflessibili nell’assicurare che faranno tutto ciò che necessita per evitare il “bank run” anche in Spagna. Il governo spagnolo annuncia ulteriori tagli di spesa e riforme strutturali. Sostenuta dai fondi forniti dal Meccanismo Europeo di Stabilità, la Spagna rimane finanziariamente a galla per diversi mesi.

Ma l’economia spagnola non può fare altro che continuare a deteriorarsi e la disoccupazione sale al 30%; le violente proteste contro le misure d’austerità del Primo Ministro Mariano Rajoy lo inducono ad indire un referendum. Il suo governo perde il supporto dei votanti e si dimette, gettando il paese in un esplosivo caos politico. La Merkel esclude la possibilità di ulteriori aiuti alla Spagna affermando che i contribuenti tedeschi, che lavorano duro, hanno già fatto abbastanza. In Spagna seguono immediatamente, ed in ordine, la fuga di capitali, il crash finanziario e l’uscita dall’Euro.

Durante un mini-summit organizzato frettolosamente, Germania, Finlandia, Austria e Olanda annunciano che loro non rinunceranno all’euro nei loro paesi. Tutto ciò non fa altro che aumentare la pressione su Francia, Italia e gli altri membri aderenti. Quando la realtà di parziale dissoluzione dell’eurozona emerge, il cataclisma finanziario si diffonde dall’Europa agli Stati Uniti e all’Asia.

Il nostro scenario si sposta in Cina, dove la leadership politica già affronta una bella crisi endogena. Il rallentamento dell’economia ha già esacerbato i conflitti sociali, ed i recenti sviluppi europei hanno aggiunto benzina sul fuoco. Con gli ordinativi di esportazione in Europa cancellati in massa, le industrie cinesi devono affrontare la prospettiva di dismissioni a catena. Dimostrazioni di protesta contro la corruzione nei partiti politici ufficiali si susseguono in tutte le maggiori città.

Il governo cinese decide che non può rischiare ulteriore conflitto sociale ed annuncia un pacchetto di misure per rilanciare l’economia e prevenire le dismissioni, inclusi supporto finanziario diretto a favore degli esportatori ed interventi sul mercato delle valute per indebolire il renmibi.

Negli Stati Uniti il Presidente Mitt Romney si è appena insediato, alla fine di una campagna elettorale in cui ha deriso Barack Obama per essere stato troppo morbido verso la Cina in tema di politiche economiche. La combinazione tra il contagio finanziario dall’Europa, che ha già condotto a una severa restrizione del credito, e l’improvvisa inondazione di importazioni a basso costo provenienti dalla Cina, catapulta l’amministrazione Romney in un vicolo cieco. Contro il parere dei propri consulenti economici, il Presidente introduce i dazi di importazione sulle esportazioni cinesi. I suoi sostenitori appartenenti al Tea Party, che lo hanno supportato con riserva durante la corsa alla Casa Bianca, lo spingono ad andare oltre e ad uscire dal World Trade Organization.

Nel giro di pochi anni l’economia globale precipita in ciò che gli storici del futuro chiameranno Seconda Grande Depressione. La disoccupazione sale a livelli da record. I governi senza risorse fiscali [proprio perché non c’è lavoro quindi manca la base imponibile, n.d.t. ] sono senza mezzi per intervenire, se non in modi che possono solo esacerbare i rapporti già tesi con gli altri paesi: protezionismo commerciale e svalutazione competitiva del tasso di cambio. Dal momento che i paesi vivono ormai nell’autarchia economica, i ripetuti summits economici globali producono scarsi risultati dopo le solite vane promesse di cooperazione.

Pochi paesi si salvano dalla carneficina economica. Quelli che ci riescono relativamente bene hanno in comune tre caratteristiche: basso livello di debito pubblico, limitata dipendenza da esportazioni o flussi di capitali, robuste istituzioni democratiche. Così Brasile ed India sembrano porti relativamente tranquilli, sebbene le loro prospettive di crescita si siano severamente ridotte.

Come nella Prima Grande Depressione, le conseguenze politiche sono molto serie e hanno incidenza nel lungo termine. Il collasso dell’eurozona (e, per le sue conseguenze pratiche, dell’Unione Europea) determina un riallineamento complessivo delle politiche europee. Francia e Germania competono apertamente nel ruolo di centri alternativi di influenza economica nei confronti dei paesi europei più piccoli. I partiti di centro pagano il prezzo del supporto al progetto di integrazione europea ed i sondaggi di opinione li vedono perdenti nei confronti dei partiti di estrema destra ed estrema sinistra. I governanti nazionalisti cominciano a buttare a calci fuori dal paese gli immigrati.

Agli occhi dei paesi vicini, l’Europa non è più quel faro di democrazia splendente che ammiravano. Il Medio-Oriente arabo sceglie definitivamente di allearsi con gli stati islamici autoritari. In Asia la competizione economica tra Stati Uniti e Cina degenera in conflitto militare, con scontri navali frequenti nel sud del Mare della Cina, con la minaccia di un’escalation del conflitto su scala mondiale.

Molti anni più tardi alla Merkel, che si è ritirata dalla politica e conduce una vita solitaria, viene chiesto se pensa che avrebbe potuto fare qualcosa di diverso durante la crisi dell’euro. Sfortunatamente la sua risposta arriva troppo tardi per cambiare il corso della Storia.

Uno scenario improbabile? Forse, ma non abbastanza improbabile.

* Titolo originale: “The End of the World as We Know It”, pubblicato il 14/06/2012 su socialeurope.eu, traduzione a cura di Roberto Polidori