I Cito, la faccia oscura di Taranto*

di Alessandro Leogrande

In un futuro lontano, gli ultimi vent’anni di politica tarantina verranno ricordati come gli anni del citismo sempre risorgente ogni qual volta è stato dato per morto e sepolto. Questo singolare impasto di leghismo meridionale, xenofobia triviale, recupero casereccio del neofascismo, populismo di periferia, sermoni antipolitici condotti dagli schermi di un emittente televisiva famigliare, è difficile da discernere al fuori dei confini della città jonica. Eppure continua a riprodursi. Oggi la saga dei Cito batte l’ennesimo colpo: Mario Cito, candidato sindaco in sostituzione dell’intramontabile padre Giancarlo (vero candidato “ombra”, benché in carcere per scontare un cumulo di condanne definitive per tangenti e concussione) è approdato al ballottaggio con il 18,9% dei voti.

Alle spalle c’è il precedente delle amministrative del 2007. Allora Giancarlo Cito, ex picchiatore fascista e sindaco sfascista della Taranto plumbea di metà anni novanta, dopo aver scontato una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, decise di candidarsi nuovamente alla poltrona di sindaco. Quando  il Tar gli impedì di correre, ebbe il colpo di genio. Candidare il figlio in sua vece, e condurre in prima persona la campagna elettorale, mantenendo inalterati i manifesti con la propria foto con su scritto “Vota Cito”, “che tanto è lo stesso”. Contro ogni previsione, traendo vantaggio dal tracollo del centrodestra locale, responsabile del  crack finanziario del Comune nel 2006, sfiorò il ballottaggio. In questi cinque anni il citismo è rimasto in letargo, con qualche fiammata elettorale qua e là. Poi è tornato in forza alle nuove elezioni amministrative.

In marzo i Cito riprendono le loro trasmissioni elettorali ogni sera, dagli studi di Tbm. Ma a metà campagna elettorale c’è il colpo di scena: Giancarlo Cito viene nuovamente arrestato, questa volta a causa di altre due condanne divenute definitive, e la storia prende un nuovo corso. Il figlio Mario continua la corsa da solo. Colui che è stato sempre identificato come “il muto” (la sua era quasi una candidatura “di copertura”), adesso in un singolare rapporto mimetico con il padre inizia a riprodurne lunghi discorsi, anatemi, perfino i tic. La carcerazione di Giancarlo Cito (ovviamente “ingiusta”) viene rovesciata, in un processo di vittimizzazione dell’intero movimento politico di famiglia (At6 Lega d’azione meridionale) in arma elettorale. La polemica contro i giudici e la “corruzione di tutti i politici jonici”, unito al solito mantra xenofobo contro zingari e cinesi (Cito arriva addirittura a sperare in una sorta di pogrom contro i rom…), diventano i solidi binari della sua campagna elettorale.

C’è un video esilarante mandato in onda su Tbm. Immagini dei Cito si alternano a scene del film “Nel nome del padre” con Daniel Day Lewis, su alcuni militanti irlandesi ingiustamente finiti nelle galere di Sua maestà. La girandola del montaggio alternato (Giancarlo Cito-Daniel Day Lewis-Mario Cito) si conclude con una schermata inequivocabile: Cito libero (il padre), Cito sindaco (il figlio).

Come i tarantini possano ancora sorbirsi tutto ciò è quasi un mistero. Il disagio delle periferie, il vento dell’antipolitica, l’efficacia della telepredicazione continua spiegano solo in parte il mistero di un consenso che si rinnova, mantenendo un suo zoccolo duro. Altrove tutto questo verrebbe bollato come lepenismo (vecchio o nuovo non importa) contro cui erigere un cordone costituzionale. Esistono pure delle forme politiche incompatibili con la Carta costituzionale, e il citismo nella sua complessità ci si avvicina parecchio. Ma a Taranto, e in Puglia, si butta tutto in commedia. Sono vent’anni che il fenomeno At6 viene sottovalutato, senza considerare seriamente le tossine che ha disseminato nel linguaggio e nella cultura politica cittadina.

All’approdo di Mario Cito al ballottaggio hanno concorso vari fattori. Innanzitutto la frammentazione delle candidature (11 in tutto) contro il vasto schieramento di centrosinistra in sostegno del sindaco uscente, Ippazio Stefano. In secondo luogo, il tracollo del Pdl. Alla lunga crisi del post-dissesto si è sommata la crisi più generale del berlusconismo. Risultato: Pdl al 6,8%  e domanda di destra che si sposta verso la destra estrema. In terzo luogo, l’irrompere del cartello ambientalista che ha sostenuto la candidatura del leader verde Angelo Bonelli: la sua strategia grillina e fortemente impolitica ha allargato di fatto il perimetro del linguaggio citano.

Al ballottaggio Stefano (giunto al 49,5% dei voti al primo turno) ha la vittoria in tasca. Il centrosinistra ha già ottenuto quasi il 55% dei voti (più del suo candidato sindaco) e una solida maggioranza in consiglio comunale, quale che sia l’esito del ballottaggio. Eppure stupisce come l’exploit di Cito non desti alcun allarme. A nessuno sulle rive dello Jonio sembra venire in mente di gridare “Non” (come fece il quotidiano progressista francese “Liberation” in prima pagina, dopo l’approdo di Le Pen al secondo turno presidenziale del 2002, invitando a votare al ballottaggio per il non certo amato Chirac). Dei 9 candidati esclusi dal secondo turno, solo Dante Capriulo (ex assessore della precedente giunta Stefano, sostenuto da Rifondazione e due liste civiche) ha sostenuto che voterà contro Cito. Tutti gli altri non intendono esprimere, al momento, alcuna indicazione per il ballottaggio. Per gli ambientalisti di Bonelli, Cito e Stefàno “pari sono”. Anzi dalle loro dichiarazioni “ecologiste e democratiche” si evince che il sindaco del post-dissesto sia addirittura peggio di un neofascista condannato in via definitiva per mafia. L’ex ministro Raffaele Fitto e il Pdl, noncuranti delle dinamiche implosive della seconda repubblica, la corsa cioè verso le ali estreme, valutano invece la possibilità di stringere un accordo al ballottaggio con Cito jr.

Perché mai dovrebbero meravigliarsi, gli storici futuri, se il citismo, col suo cumulo di odi e rancori, ha avuto a Taranto una vita tanto lunga? La Terza repubblica dovrebbe nascere su un minimo comun denominatore: le istituzioni e il loro continuo svillaneggiamento (nutrito di una xenofobia che fa paura) pari non sono. Le indicazioni per i ballottaggi sono il primo banco di prova.

*: uscito sul Corriere del Mezzogiorno 10 maggio 2012