“L’austerità è di destra”. Idee per ricostruire la Sinistra

di Salvatore Romeo (’84)

“L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa” (Il Saggiatore, pp. 152) è un’agile, chiara e al contempo densissima sintesi di un’elaborazione di pensiero che i due autori, Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, conducono già da qualche anno. E’ un libro che aspettavamo e che forse arriva in tempo ancora utile per tentare di rivitalizzare quel che resta della sinistra italiana. Il testo si struttura su due assi, profondamente intrecciati fra loro: l’esame delle cause, della portata e dei possibili esiti della crisi economica che stiamo attraversando e la critica delle politiche messe in campo da governi e istituzioni internazionali nel tentativo di superarla. A questa operazione propriamente analitica, i due autori aggiungono uno sforzo programmatico che porta il libro a irrompere sul terreno della battaglia politica con effetti decisamente destabilizzanti per le posizioni ormai incancrenite delle forze in campo. In questa sede cercheremo soprattutto di analizzare la trama logica del testo ponendo in evidenza quelli che a noi paiono i suoi quattro meriti fondamentali: rigore dell’analisi; consequenzialità delle proposte; realismo della visione politica; implacabilità della critica. Ne risulterà un giudizio che identifica ne “L’austerità è di destra” una pietra miliare del dibattito ideale e politico corrente: un punto dal quale prendere le mosse per riempire di senso l’espressione – sempre più indefinita – “Sinistra”.

Perché “l’austerità è di destra?”

La prima ragione che ci fa apprezzare il lavoro di Brancaccio e Passerella è lo straordinario rigore dell’analisi. Attraverso una serie serrata di nessi causali essi ricostruiscono le origini, l’evoluzione e i potenziali esiti della crisi in cui ci stiamo dibattendo.
Partendo dall’attualità, le ragioni che gli autori individuano per affermare che “l’austerità è di destra” fanno riferimento sia al breve che al lungo periodo. Nell’immediato, da una parte l’aumento di tasse e tariffe – alimentato dai tagli ai servizi pubblici –, dall’altra la contrazione di salari e stipendi – conseguita sia direttamente che attraverso l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro –, determina una morsa in cui a restare schiacciati sono i gruppi più deboli (pensionati, lavoratori dipendenti, giovani, donne). La conseguenza economica di questa pressione è il crollo dei consumi, quindi della domanda, che a sua volta determina cali di produzione, disoccupazione e, in assenza di aspettative di ripresa, la decisione delle aziende di sospendere gli investimenti. Di qui un ulteriore contrazione della domanda e l’innescarsi della spirale della recessione – nella quale siamo pienamente immersi. Questa tendenza, se non arrestata, ha un esito preciso: diminuendo progressivamente il reddito del paese diventerà sempre più difficile rimborsare i debiti, per cui a un certo punto diventerà inevitabile per l’Italia uscire dall’Euro. Potrebbe allora materializzarsi nuovamente, ma in scala allargata, lo scenario del 1992 – quando il nostro paese uscì dal Sistema Monetario Europeo (SME), il “padre” dell’Euro –: con il ripristino di una Lira seccamente svalutata rispetto al suo attuale rapporto di cambio con l’Euro lavoratori e pensionati vedrebbero ridursi proporzionalmente il valore dei rispettivi redditi. La svalutazione investirebbe gli stessi capitali nazionali, che diventerebbero così oggetto di acquisizioni da parte dei più forti capitali stranieri – essenzialmente tedeschi. In definitiva, l’ulteriore impoverimento della popolazione alimenterebbe la desertificazione produttiva, mentre ciò che resterebbe dell’economia italiana costituirebbe in sostanza un’appendice di quella tedesca. “Le leve di comando del capitale si concentreranno sempre di più in Germania e nelle aree centrali dell’Unione, mentre le periferie dell’eurozona resteranno popolate da masse inermi di azionisti di minoranza e di lavoratori a basso costo”.
Questa, in estrema sintesi, è la previsione che Brancaccio e Passarella proiettano per il prossimo futuro. Gli si potrebbe tuttavia ribattere che la contrazione dei salari in atto potrebbe permettere al nostro sistema produttivo di recuperare competitività, agganciandosi alla ripresa di qualche grande attore dell’economia mondiale. Ipotesi destituita di fondamento secondo i nostri autori: in realtà al momento il meccanismo di accumulazione del capitale su scala globale è inceppato a causa del blocco del motore che lo ha trainato negli ultimi tre decenni, la finanza privata. Alimentata da abbondanti flussi di denaro a buon mercato messi a disposizione dalla Federal Reserve e liberata da “lacci e lacciuoli” grazie alla deregulation dei governi conservatori di Ronald Reagan, questa di fatto ha creato reddito, che a sua volta si è tradotto nella crescita di investimenti e consumi. In sostanza, la speculazione ha spinto in alto i valori dei titoli di borsa, consentendo alle imprese beneficiate di godere di massicci apporti di liquidità e agli investitori di accrescere i propri guadagni. La ricchezza prodotta in questo modo è andata anche a lenire gli scompensi che la società americana aveva intanto maturato: i salari decrescenti dei lavoratori sono stati integrati dalla stessa finanza privata attraverso l’ampia concessione di crediti. In questo modo non solo l’“american way of life” è stato preservato, ma il paese è diventato la “spugna” per i grandi produttori mondiali (Cina e Germania, in primis). Quando l’incanto si è rotto, col crack del 2008, gli USA e la finanza privata hanno smesso di svolgere la funzione di traino dell’economia mondiale e da allora non si è trovato altro paese e forza economica in grado di sostituirli. Brancaccio e Passarella non credono che questa funzione possa essere assunta a breve dalla Cina: se quest’ultima infatti iniziasse a importare più di quanto non esporti (ribaltando la tendenza di questi anni) perderebbe il costante afflusso di dollari che le consentono di godere di una sostanziale stabilità monetaria. In generale, solo il paese che gode del privilegio di battere la moneta che è mezzo di scambio internazionale e deposito di valore, può far da “spugna”. Ma neanche gli USA sembrano più intenzionati a svolgere questo ruolo e anzi ambiscono a loro volta a diventare esportatori netti. Ma allora, se tutti vogliono vendere… chi comprerà le merci? Lo scenario che si prospetta è inquietante, per alcuni versi analogo a quello che precedette i due conflitti mondiali.

Quali vie d’uscita?

Il secondo merito del lavoro di Brancaccio e Passerella è senza dubbio la consequenzialità delle proposte messe in campo per evitare la catastrofe. Individuati i limiti e le contraddizioni del meccanismo di sviluppo che ha mosso l’economia mondiale nell’ultimo trentennio, essi offrono risposte coerenti con la natura e la portata dei problemi.
Di fronte all’impasse che si prospetta gli autori riprendono, approfondendola, la proposta di riforma del sistema monetario internazionale avanzata da John Maynard Keynes alla Conferenza di Bretton Woods, nel 1944. L’obbiettivo cui tendere è la creazione di una moneta unica mondiale, che abbia come base sottostante un sistema dei pagamenti programmato per ricomporre gli squilibri di volta in volta emergenti fra paesi esportatori e paesi importatori: in presenza di questi ultimi, i primi dovrebbero essere indotti a espandere la domanda interna – attraverso incrementi dei salari e della spesa pubblica – in modo da consentire ai secondi di aumentare le proprie esportazioni. Il paese che contravvenisse a questa norma verrebbe a subire ritorsioni commerciali.
Tuttavia, realisticamente, i nostri autori giudicano improbabile che grandi paesi esportatori – come la Cina –, per quanto interessati alla costruzione di un’unità monetaria mondiale, potrebbero accettare tale proposta senza l’impegno da parte del più ampio mercato del mondo, l’Unione Europea, ad adottare al suo interno un meccanismo di funzionamento analogo. Detto altrimenti, non ci si può aspettare che i Cinesi si dispongano a comprare se nel frattempo i Tedeschi non lo fanno “a casa loro”.
Veniamo così al punto chiave della crisi europea. Ciò che si è detto sopra accennando alla “germanizzazione” del continente è l’esito dello squilibrio fondamentale che caratterizza l’eurozona sin dalla sua nascita. In breve, facendo leva su un superiore grado di organizzazione e concentrazione dei capitali e su una dinamica del costo del lavoro bloccata da inizio del secolo, la Germania e gli altri paesi “centrali” hanno trovato nell’integrazione economica europea un’opportunità unica per conquistare i mercati dei paesi dell’Europa mediterranea – e della “periferia” europea in generale. Ne è derivato un progressivo miglioramento dell’attivo commerciale per i primi e un peggioramento del passivo per i secondi. Questo squilibrio fondamentale è diventato deflagrante quando, esplosa la crisi finanziaria, gli stessi speculatori che fino a quel momento avevano tratto profitti dalle successive bolle di Wall Street, hanno trovato interessante scommettere sulla fuoriuscita dall’Euro dei paesi periferici d’Europa. La correlazione fra questa eventualità e lo squilibrio commerciale cui si è appena accennato è evidente: una svalutazione, almeno nel breve periodo, incentiva le esportazioni e si disincentiva le importazioni. In quest’ottica la speculazione sui titoli pubblici di questi paesi anticipa un evento che, dato il quadro attuale, appare inevitabile. Ecco spiegata – senza ricorrere a risibili complottismi e rigettando la vulgata corrente che vorrebbe farla dipendere dal deficit dei bilanci pubblici degli Stati – la dinamica del famigerato spread.
Per arrestare la corsa verso il baratro dunque l’Unione Europea dovrebbe strutturarsi su parametri del tutto nuovi rispetto a quelli vigenti dall’approvazione dei Trattati di Maastricht. Al fine di colmare il suo squilibrio commerciale Brancaccio e Passarella propongono uno “standard retributivo europeo”. Se in questi anni la Germania e gli altri paesi centrali hanno maturato una contrazione del rapporto fra salari reali e produttività che gli ha permesso di accrescere la propria competitività sul mercato unico e di accumulare crescenti surplus commerciali, a partire dall’introduzione dello “standard retributivo” essi sarebbero tenuti a innalzare i rispettivi salari nominali in modo da portare il rapporto salari reali/produttività al livello di quello vigente nei paesi periferici, in modo da sollecitare le esportazioni di questi ultimi e dunque l’allineamento delle rispettive bilance commerciali. Chi non operasse in coerenza con questa clausola sarebbe tenuto a pagare una sanzione. Il grande merito di questa proposta sarebbe quello di fare l’interesse di tutti i lavoratori europei – che vedrebbero i rispettivi redditi crescere – a differenza di quanto accade oggi, con le misure d’austerità che mirano ad abbattere le retribuzioni dei lavoratori delle periferie.
Lo standard retributivo permetterebbe di rimediare agli squilibri che al momento minacciano la sopravvivenza dell’Unione, ma non basterebbe a riavviare un duraturo processo di sviluppo a livello continentale – e men che meno mondiale. Esso costituirebbe un (indispensabile) fattore di redistribuzione fra paesi (da quelli centrali a quelli periferici) e gruppi sociali (dai percettori di profitti a quelli di salari e stipendi). Il punto resta sempre quello di avviare un nuovo motore per la crescita. A questo proposito i nostri autori individuano nella spesa pubblica in deficit la sola alternativa alla finanza privata. Ciò richiederebbe, in primo luogo, una drastica riforma dell’autorità monetaria (la BCE), che dovrebbe essere condotta alla funzione di “prestatore di ultima istanza”, cioè di fornitore (potenzialmente illimitato) di risorse agli Stati. In questo quadro la proposta degli Eurobond, che potrebbero essere acquistati direttamente dalla BCE, si configurerebbe come un prezioso strumento per finanziare l’espansione della spesa pubblica.
Tuttavia, avvertono Brancaccio e Passarella, occorre prendere precauzioni rispetto all’eventualità che la ripresa della domanda sollecitata dalla spesa pubblica costituisca un nuovo volano per la finanza privata. Se così fosse presto o tardi si cadrebbe nelle stesse contraddizioni che hanno caratterizzato il trentennio appena trascorso – e quindi in una nuova e più terribile crisi. Per scongiurare tale esito occorre quindi che sia l’intervento pubblico che la politica monetaria assumano particolari caratteristiche. In primo luogo, l’intervento pubblico dovrebbe presentare elementi di pianificazione: individuare cioè tutta una serie di settori che la dinamica dei prezzi, orientata dal profitto privato, tende a relegare ai margini delle strategie d’investimento – e che tuttavia soddisfano bisogni sociali fondamentali – e lì concentrare la spesa, in modo da fornire alla società e al sistema economico non un semplice input finanziario, ma mezzi di produzione, beni e servizi che ne irrobustiscano la struttura. D’altra parte, l’autorità monetaria dovrebbe svolgere una funzione di “repressione dei mercati finanziari”, attraverso una politica del credito selettiva (che privilegi il finanziamento della spesa pubblica sulle operazioni del tipo di quella recentemente messa in atto dalla BCE con il prestito massiccio alle banche per aiutarle a “ripulire i rispettivi bilanci” e a sostenere i titoli pubblici dei paesi sotto attacco speculativo) e forti restringimenti alla libertà di movimento dei capitali – in modo da inibire la speculazione e le delocalizzazioni.

Un “piano B” per i paesi periferici

Brancaccio e Passerella tuttavia si rendono bene conto che tali proposte, per quanto adeguate in linea di principio, sono destinate a scontrarsi con la logica ferrea degli interessi. Il terzo fondamentale merito del libro è dunque la prova di realismo politico che gli autori offrono a quanti, soprattutto a sinistra, sono soliti dar sfoggio di belle intenzioni e nobili auspici, destinati però a infrangersi alla prova dei fatti.
L’ostacolo principale che il progetto di riforma dell’Unione Europea propugnato dai nostri autori incontra è naturalmente l’interesse della Germania e degli altri paesi centrali. Questi nell’immediato sarebbero certo danneggiati dall’eventuale fuoriuscita dall’Euro dei paesi periferici, ma il calcolo costi/benefici che le classi dirigenti di quegli Stati stanno elaborando guarda anche agli esiti successivi di quell’evento. In particolare esso prospetta l’opportunità di assoggettare ai capitali tedeschi i sistemi economici delle periferie – la “germanizzazione” di cui si è detto sopra. In questo modo la Germania – e il Nord Europa in generale – diventerebbe una poderosa “macchina da guerra” in grado di dominare i mercati internazionali – con prospettive di certo non rassicuranti. Di contro, la povertà delle periferie verrebbe gestita prevalentemente come un problema di “ordine pubblico” – gli autori rilevano che gli indicatori statistici segnalano una pericolosa corrispondenza fra regressione socio-economica dei paesi e restringimento, all’interno di essi, delle libertà politiche e civili.
A questo punto occorre agire in maniera dialettica. Se si vuol portare i Tedeschi a più miti consigli occorre paventare la possibilità che, fuoriuscendo dall’Euro, i paesi periferici escano anche dal mercato unico, imponendo rigidi controlli ai movimenti di capitali e, al limite, di merci. In questo modo si farebbe presa su quanti, nella stessa Germania, individuano nei mercati della periferia europea altrettanti sbocchi per le proprie merci e, in particolare, per i propri capitali. A questo proposito dovrebbe indurre a riflettere la recente dichiarazione – riportata da Brancaccio e Passarella – di Anton Börner, il presidente dell’associazione degli esportatori tedeschi: “La Germania può senz’altro vivere senza l’Euro, a patto che il mercato resti libero”.
La “minaccia” oltretutto, qualora per via dell’evolvere degli eventi dovesse tradursi in realtà, consentirebbe di ottenere effetti pratici auspicabili. In primo luogo, il controllo sui movimenti dei capitali – unita all’azione di una banca centrale tornata sovrana, cioè in grado di espandere indefinitamente l’offerta monetaria acquistando gli stessi titoli pubblici – ostacolerebbe la corsa al rialzo dei tassi d’interesse che inevitabilmente una svalutazione implica. In sostanza, si ostacolerebbero le fughe di capitali e le “corse agli sportelli” che si verificano in questi casi. In secondo luogo, il paese a quel punto potrebbe gestire con più ampi margini di manovra – senza cioè l’ossessione di oneri crescenti sul debito – il problema della svalutazione dei redditi da lavoro, promuovendo magari misure di redistribuzione e di ripresa dell’occupazione attivate dalla spesa pubblica. Resterebbe il problema – tutt’altro che trascurabile – del deficit commerciale, che potrebbe erodere gli sforzi della banca centrale attivando una spirale inflazionistica. E’ per questo che gli autori propongono alle autorità politiche di tralasciare nell’immediato l’obbiettivo del recupero del deficit di bilancio per concentrarsi su quello dell’annullamento del deficit commerciale. Andrebbero varate da subito politiche industriali concentrate in particolare nei settori in cui il nostro paese fa registrare più ampi deficit (energia e agroalimentare) e volte a promuovere una maggiore concentrazione e organizzazione dei capitali nazionali – superando in sostanza il modello del “piccolo è bello” – per innalzare i livelli di produttività e migliorare, di conseguenza, la competitività del nostro sistema produttivo.

“Tu da che parti stai?”

Quanto riportato fin qui è semplicemente una ricostruzione del tessuto logico de “L’austerità è di destra”. Si è volutamente adottato questo schema per porre in evidenza la linearità quasi cartesiana che struttura l’argomentazione di Brancaccio e Passarella. Ma nel corso dell’opera – e in ciò consiste il quarto merito del libro – gli autori affrontano e dissolvono in maniera implacabile tutta una serie di ingenuità e contraddizioni logiche che permeano il senso comune corrente, in particolare a sinistra. All’apparenza si tratta anche in questo caso di un’operazione degna di Cartesio, ma la prospettiva di metodo dei nostri autori non punta semplicemente a individuare una verità astratta, bensì a strutturare una visione del mondo a partire dalla posizione e dagli interessi dei soggetti subalterni negli attuali rapporti di forza fra gruppi sociali e paesi. Siamo dunque a Gramsci e alla ricerca di un pensiero egemonico che possa farsi leva di un progetto politico al quale dovrebbe guardare con massimo interesse chi intenda seriamente rilevare – e rivitalizzare – l’eredità del movimento operaio novecentesco.
Tutte le questioni fondamentali del dibattito socio-economico corrente vengono lette e risolte a partire da questa lente.
E’ legittimo che i paesi creditori impongano ai debitori “lacrime e sangue”? No, perché ciò accresce gli squilibri e porta al dominio dei primi sui secondi, ponendo un’ipoteca sull’Unione Europea e sulla stabilità mondiale. Occorre piuttosto stabilire un “punto di vista del debitore”, riassunto nella proposta dello “standard retributivo europeo”, in base al quale i primi scontino il fatto di essere cresciuti sostanzialmente grazie all’indebitamento dei secondi. Da questo punto di vista le mistificazioni che tendono a ridurre i bilanci degli Stati alla stregua di bilanci familiari vanno rigettate non solo come palesi falsità, ma come armi ideologiche che mirano a confondere le menti.
E’ giusto difendere acriticamente la libera circolazione di merci e capitali? No, se questo implica una serie di conseguenze nefaste: la delocalizzazione e la “germanizzazione” dell’economia europea in primis. Occorre usare anche lo strumento del controllo sui capitali e del protezionismo se questo va nel senso di un riequilibrio del rapporto fra paesi e gruppi sociali – o comunque tutela i soggetti più deboli –, sfidando senza timore il conformismo di quanti continuano a immaginare l’Europa come l’Eden in cui leone e agnello possano dormire accanto in pace. In questo stesso discorso rientra la questione della “fuoriuscita dall’Euro”: si tratta di un esito che diventa sempre più probabile, per cui a un certo punto – se la Germania non dovesse accettare una riforma dell’Unione – occorrerà porsi il problema di “come” abbandonare la moneta unica, se privilegiando i soli interessi delle imprese esportatrici o tutelando i lavoratori e la funzione dello Stato. Su questo terreno la sinistra potrebbe essere costretta a giocare a breve una partita decisiva per la sua stessa sopravvivenza.
E’ sensato demonizzare l’intervento pubblico come latore di inefficienze e sprechi o come precursore della soppressione delle libertà civili e politiche? No, dal momento che si è dimostrata molto più inefficiente e “sprecona” la finanza privata in questi anni, alimentando la crescita smisurata di certi settori (si pensi all’edilizia privata) presso i quali ora invece capacità produttive, manodopera, competenze tecniche e scientifiche languono inutilizzate. E’ urgente dunque pensare a una nuova intraprendenza economica dello Stato, che si traduca in una pianificazione degli investimenti che privilegi i settori in cui le forze di mercato latitano e che la comunità considera invece strategici per il proprio sviluppo. Da questo punto di vista è indispensabile, a sinistra, “rielaborare il lutto sovietico”, cioè considerare quell’esperienza per quel che è stata: un tentativo circoscritto e parziale di sperimentare un diverso sistema economico alternativo a quello capitalistico; in questo modo se ne potrebbero recuperare gli elementi positivi e cogliere fino in fondo la radice degli orrori. Ma il senso di colpa per l’URSS va affrontato soprattutto nelle sue conseguenze sul presente. Pur di rimuovere l’ingombrante spettro dello Stato – che il senso comune vuole responsabile ultimo della “tragedia sovietica” – una parte del movimento ha inventato una dimensione terza rispetto al pubblico e al privato, il “comune”. Si tratta essenzialmente di una astrazione e universalizzazione del concetto molto concreto – e dunque altrettanto circoscritto a realtà particolari – di “beni comuni”: sostanzialmente una formula retorica, suggestiva nella sua forza simbolica, ma di fatto inconsistente nelle sue implicazioni reali.

In conclusione, “L’austerità è di destra” è un primo fondamentale passo lungo un percorso di autonomia di pensiero e d’azione dei soggetti sociali attualmente subalterni e delle forze politiche seriamente interessate a un processo di trasformazione dell’esistente. L’opera di Brancaccio e Passarella è una sveglia per gli intelletti impigriti dalla propaganda liberista e dalla facile retorica di certa sinistra; è una lezione di metodo valida soprattutto per i giovani che vogliano mettere a frutto – e non dissipare – la vivacità delle proprie menti. Sarebbe da auspicare che questo libro circolasse e venisse letto e discusso in tutte le sedi di riflessione e di azione politica: sezioni di partito, centri sociali, associazioni ecc.; che fosse nello zaino o nella borsa di ogni militante. A partire da qui si potrebbe iniziare a costruire una coscienza collettiva che fosse il preludio di una nuova soggettività concretamente rivoluzionaria. Brancaccio e Passerella ci hanno fornito il “la”, ora tocca a noi metterci a suonare.