“E manifesto…”

di Simona Internò

In questi giorni il dibattito sulle questioni relative al diritto al lavoro, il ruolo dei sindacati, le manifestazioni di piazza a livello nazionale e locale, suscitano grande apprensione. Pochi potranno negare un senso di smarrimento, di confusione  e difficoltà nel pensare a ipotesi  realmente risolutive della questione in tutta la sua complessità.

Verrebbe naturale di scendere in piazza per il solo bisogno di esprimere le contraddizioni in un coro, uno striscione, un megafono che urli , riprendendo il testo di una canzone di Daniele Silvestri , “il disagio personale e culturale nel contesto, in cui protesto perché non voglio più tenermi dentro tutto dal momento che non posso, che non ci riesco .. e manifesto l’inquietudine morale di chi non si sente onesto stando nascosto, perché non posso rimanere lì nell’angolo se no divento matto… “

E’ quello che si prova anche guardando le immagini delle manifestazioni degli ultimi mesi e dei giorni scorsi avvenute a Taranto, in cui gruppi di lavoratori delle grandi aziende che sussistono da tempo sul territorio, sono finalmente usciti dai luoghi di lavoro per esprimere delle richieste. Lo smarrimento è forse dovuto al fatto che queste manifestazioni sul territorio di Taranto siano avvenute esclusivamente in un momento critico per l’azienda, mentre non abbiamo memoria di manifestazioni così ampiamente partecipate legate alla rivendicazione dei diritti alla sicurezza o alla salute dei lavoratori stessi.  Quali meccanismi inducono masse di operai a scendere in piazza per la sopravvivenza aziendale e non manifestare invece per l’eccesso di mortalità per patologie tumorali, malattie neurologiche e cardiache dei lavoratori stessi oltre che dei propri familiari? L’angoscia prende piede nel cuore di una città che si stringe attorno a questi lavoratori che, alla fine del turno di lavoro, spogliati delle loro tute,  vivono drammi quotidiani, divisi certamente nel proprio intimo tra il dolore della mancanza di alternativa e il bisogno di dare risposta alle esigenze di sopravvivenza del nucleo familiare.

La riflessione si deve spostare necessariamente su un piano differente, che analizzi le forme di sopravvivenza sociale all’interno di organizzazioni complesse che nei decenni hanno definito l’identità stessa di un territorio e dei rapporti sociali ad esso connessi.

Qualsiasi analisi della cultura organizzativa deve tener conto delle credenze ideologiche e mitiche: l’ideologia si rivela un’importante risorsa organizzativa e viene usata, manipolata, esaltata e minata per numerosi scopi. Modelli di comportamento, decisioni ed azioni non esprimono soltanto la valutazione tecnica di priorità, poiché le priorità incorporano valori, sono cioè ideologicamente determinate.

Marx[1] aveva usato il termine “ideologia” per intendere un insieme di rappresentazioni del mondo che, da un lato “naturalizzano” l’esistente sottraendolo all’analisi storica, e dall’altro occultano le contraddizioni presenti, legittimando l’ordine consolidato ed esprimendo così il punto di vista della classe al potere. Qualificava come “sovrastruttura” le strutture giuridiche e politiche e le forme di coscienza sociale per indicare metaforicamente che l’edificio ideologico ha le sue fondamenta nei rapporti sociali di produzione, cioè i rapporti indipendenti dalla volontà, necessari. Tale sovrastruttura può entrare in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, e “convertirsi in loro catene”.

Secondo Sebag, bisogna considerare l’ideologia non come qualcosa che sta autonomamente sopra la struttura sociale con un ruolo semplicemente giustificativo, ma come interna alla struttura e con un ruolo formativo, organizzativo. In questa prospettiva, forme ideologiche e forme di produzione, devono essere considerate come aspetti inseparabili del processo di riproduzione sociale. Solo partendo da questo presupposto può avere inizio la comprensione delle forme culturali interne ad un’organizzazione. La struttura e la sovrastruttura formano un blocco storico, in un rapporto dialettico di reciprocità necessaria.[2]

L’ideologia organizzativa può essere definita come un insieme di idee fondamentali e di conseguenze operative collegate tra loro nell’ambito di un sistema dominante di credenze che spesso produce contraddizioni, ma serve a definire e a conservare l’organizzazione.[3] Nell’ideologia si articolano valori, obiettivi e interessi che danno forma ad una collettività e richiedono una distribuzione interna del potere. Nelle organizzazioni, in genere, le varie componenti hanno esigenze contrastanti: ad esempio, il management e i sindacati possono manifestare interessi contrapposti. Il riconoscimento delle legittime componenti e della loro interdipendenza spesso sfocia in una retorica ufficiale che abbraccia gli interessi di tutti i partner significativi, ma non sempre, poiché il potere di ciascuna componente può variare.

L’ideologia dell’organizzazione, in altre parole, si riferisce tacitamente ai gruppi dominanti e ai loro interessi, e le definizioni della realtà possono cambiare significativamente in casi di modificazioni o discontinuità negli equilibri di potere. L’ideologia è una risposta alle esigenze individuali e collettive di comprensione, coerenza, verità, sicurezza e ordine; aiuta l’individuo a dare un senso alla realtà, è funzionale al mantenimento dei ruoli individuali e delle relative prestazioni.

Le credenze di un individuo e quelle di un gruppo o di un’organizzazione sono differenti. Le credenze collettive non si manifestano in modo continuo, ma soltanto quando gli individui adottano determinati atteggiamenti e s’impegnano in specifiche azioni in quanto membri di un gruppo o di un’organizzazione. Nonostante ciò, le credenze individuali possono essere collegate alle credenze collettive ed essere influenzate.

L’ideologia traduce le priorità organizzative ufficiali in una definizione di ciò che è ragionevole, appropriato e necessario, e, se accettata, ad essa segue l’impegno appropriato. Senza la giustificazione e la legittimazione dell’ideologia non può esserci un’organizzazione efficace, né la possibilità di appartenenza alla cultura organizzativa interna. L’appartenenza e l’effettiva partecipazione degli individui, per avere opportunità di carriera, spesso richiedono d’indossare l’ideologia accettata, che essa domini la loro definizione della realtà con riferimento ai loro ruoli ufficiali, ma anche ai ruoli non ufficiali, accettando gli obblighi che ne derivano.  Le organizzazioni rafforzano la validità delle loro azioni affermando valori e preferenze duraturi, coordinati all’interno di un sistema coerente di credenze ideologiche.

Le componenti delle ideologie organizzative possono essere distinte in due tipologie: le componenti strutturali e quelle di legittimazione; le componenti strutturali definiscono la situazione e generano azioni specifiche, che devono essere legittimate facendo appello a componenti legittimanti (come la logica, l’emozione o il mito). Quando l’ideologia è chiamata a svolgere la sua funzione di guida delle azioni concertate e delle decisioni quotidiane, perde la sua purezza morale in favore di considerazioni pratiche quali la convenienza o l’esigenza del compromesso. Il conflitto emerge non solo tra l’ideologia e l’azione, ma anche all’interno della struttura stessa dell’ideologia.

L’ideologia fondamentale è un’espressione dell’ordine morale a cui aderisce l’organizzazione, ma non trova necessariamente riscontro nella pratica. Contraddizioni e incongruenze sono inevitabili, ma sono riducibili attraverso la mitizzazione di norme istituzionali, giustificazioni razionali, miti legittimanti e miti di mediazione. Salvaguardare i principi quando sono sfidati è fondamentale per l’identità ideologica, mentre altri principi devono modificarsi a seconda delle circostanze per assicurare la sopravvivenza. A differenza degli individui, le organizzazioni, per sopravvivere, devono avere una solida base ideologica; le contraddizioni che emergono tra dimensione ideologica fondamentale e quella operativa sono inevitabili ma possono essere mediate dai miti e dai rituali.[4]

Così come nei gruppi sociali, anche nelle organizzazioni, i riti, le storie, le cerimonie, per quanto ambigue, hanno la funzione di riconfermare i valori organizzativi.

L’analisi del rito e del cerimoniale è un approccio utile per studiare l’azione concertata di una pluralità di forme culturali e per mettere in luce quei reticoli di significati interagenti che caratterizzano le culture organizzative. Da questa prospettiva la cultura presenta due componenti principali: la sostanza (o i reticoli di significati contenuti nelle sue ideologie, norme e valori) e le forme (le pratiche grazie alle quali tali significati sono espressi, affermati e comunicati ai membri). Analizzandone le forme, si possono discernere i significati propri di una cultura e attraverso l’esame delle conseguenze sociali, sia manifeste sia latenti del rito e del cerimoniale, fornire un mezzo per collegare i fenomeni culturali agli altri aspetti della vita organizzativa. Nello svolgimento delle attività connesse con un rito o un cerimoniale, i partecipanti fanno uso di altre forme culturali – un certo linguaggio, certi gesti, simboli di vario tipo, ambientazioni – al fine di esaltare l’espressione dei significati condivisi conformi all’evento. Spesso i significati vengono inoltre condivisi e trasmessi richiamando miti, saghe, leggende o altre storie collegate con l’occasione.

Il rito amalgama un certo numero di forme culturali in una rappresentazione pubblica integrata ed unificata. Oltre a rappresentare un consolidamento per le forme culturali, il rito prevede un certo grado di progettazione, che le attività vengano svolte mediante interazioni sociali, che si svolgano dinanzi ad un pubblico (o delle telecamere della TV ),  che abbiano una pluralità di conseguenze sociali.

Rito e cerimoniale sono drammi sociali i cui partecipanti impersonano ruoli ben definiti. Spesso vengono ripetuti più volte al ripetersi delle medesime occasioni e richiedono perciò una certa progettazione, e non di rado sono preceduti da vere e proprie prove generali.

Vi è una gran varietà di riti e cerimoniali diffusi nella vita delle organizzazioni moderne, tra cui i riti di passaggio, riti di degradazione, di esaltazione, di rinnovamento, di ricomposizione dei conflitti e d’integrazione.  Gli elementi fondamentali di questi riti soddisfano bisogni sociali di carattere universale. Il tirocinio e l’addestramento aziendale comprendono riti di passaggio, come anche i processi di selezione e addestramento dei quadri intermedi. Ma anche i pensionamenti prevedono spesso veri e propri riti di passaggio. Per agevolare la transizione al nuovo status si eliminano i modelli di comportamento fondati sull’identità del vecchio ruolo e vengono appresi nuovi modelli di comportamento.  Ma si ottengono anche conseguenze sociali latenti e meno ovvie, poiché certi ruoli sociali resisi vacanti verranno ricoperti da persone che si cerca di rendere quanto più possibile simili a chi li occupava in precedenza; in questo senso i riti contribuiscono a far sì che i nuovi occupanti possano essere trattati in modo uguale ai vecchi, riducendo perciò al minimo eventuali rischi di discontinuità o incertezze nei rapporti sociali correnti.

Nei riti di degradazione, che oggi potrebbero rientrare nelle forme di mobbing,  alcuni membri dell’organizzazione portano l’attenzione a concentrarsi sul degradando, istituendo pubblicamente un nesso tra il suo comportamento e certi problemi o fallimenti organizzativi. Tale cerimonia è volta a dissolvere l’identità sociale di quel membro qualora non si sia visto miglioramento nella situazione problematica che lo vede coinvolto. Un aspetto importante di questa fase iniziale è il linguaggio degradante usato. Il personaggio viene screditato in virtù di una qualche relazione o analisi ostentatamente obiettiva e spesso svolta da persone estranee all’organizzazione, estraneità che simboleggia la presunta oggettività di giudizio di tali consulenti. Un ruolo simile è quello svolto dai giornalisti sportivi nella degradazione di un allenatore. L’individuo viene pubblicamente deposto.  Le conseguenze manifeste e intenzionali dei riti di degradazione sono dunque di dissolvere l’identità sociale e il corrispondente potere di chi è chiamato a subirli. I riti servono a difendere i confini del gruppo grazie a una ridefinizione di chi vi appartenga o no e per riaffermare l’importanza e il valore sociale del ruolo che viene chiamato in causa. I riti di degradazione non sono molto diffusi nelle organizzazioni moderne e sembrano essere necessari solo quando si tratta di allontanare membri di status relativamente elevato o comunque influenti.

I riti di esaltazione sono molto frequenti nella società odierna: esaltano lo status personale e le identità sociali dei membri e hanno come conseguenza latente quella di diffondere notizie positive riguardo all’organizzazione, affermare l’importanza del ruolo sociale in questione, fornire riconoscimento pubblico a conquiste individuali consentendo all’organizzazione di rivendicare a sé una parte del merito. Un’altra conseguenza è la motivazione di altri membri ad accrescere il proprio impegno. I riti di esaltazione non sono gli opposti speculari di quelli di degradazione, poiché non alterano lo status di membro dei partecipanti: chi è oggetto di un rito di esaltazione non entra a far parte dell’organizzazione nel corso del rito, poiché ne è già membro, e inoltre tende ad essere applicato frequentemente e a tutti i membri, qualunque sia il livello di status e d’influenza.

I riti di rinnovamento sono attività tese a rimodellare o a rinsaldare le strutture sociali esistenti ed a migliorarne in tal modo il funzionamento. Tra i principali esempi ricordiamo la maggior parte delle attività di sviluppo organizzativo: programmi di gestione per obiettivi, la riprogettazione delle mansioni, la costruzione di èquipe, interventi basati su inchieste, i programmi per la qualità della vita sul lavoro, i circoli di qualità, e così via. Tra i possibili effetti latenti di tali riti vi sono quelli di rassicurare i membri che qualcosa si sta facendo per risolvere i loro problemi, di occultare la reale natura dei problemi, rinviare il riconoscimento e di concentrare l’attenzione su determinati problemi distogliendola da altri. I riti di rinnovamento, inoltre, tendono a legittimare e rafforzare quegli stessi sistemi di potere e di autorità su cui poggiano gli assetti sociali che si vorrebbero modificare.

I riti di ricomposizione dei conflitti sono finalizzati a ridurre conflitti e aggressioni generati da tutta una serie di situazioni insite nella vita sociale (la stratificazione sociale, la divisione del lavoro, i dislivelli di potere e di risorse tra gruppi e differenze di vario genere).

La contrattazione collettiva e l’arbitrato sono due fondamentali insiemi di comportamenti sviluppati per ricomporre i conflitti nelle organizzazioni. Nelle fasi iniziali della contrattazione collettiva, sindacato e direzione si fronteggiano agitando lunghi elenchi di richieste e proposte rassicurando così i componenti dei due schieramenti sul fatto che entrambe le parti sono decise a esprimere le proprie ire e rimostranze; simboleggiano inoltre il mito secondo cui la contrattazione si svolgerebbe tra pari, come del resto attesta l’ambiente stesso del rito e le opposte sponde di una grande tavola da conferenze. A volte si inscenano falsi scontri che ricalcano altrettanti modelli ritualizzati e talora si protraggono fino alle ore piccole per meglio simboleggiare la dura resistenza che entrambe le parti stanno opponendo alle altrui richieste. Nei casi in cui fallisce la trattativa rituale, il ricorso allo sciopero fornisce ancora un altro mezzo ritualizzato per ridurre l’aggressività e ricomporre il conflitto.  Un altro rito di ricomposizione dei conflitti molto diffuso è il formare gruppi di lavoro o commissioni di altro genere per attivare una serie di riunioni che stanno a simboleggiare la disponibilità ad affrontare il problema da parte delle autorità, e allo stesso modo, l’incoraggiare la partecipazione ne simboleggia la disponibilità a prestare ascolto alle idee degli intervenuti. Quasi sempre si prevedono criteri paritari di partecipazione conferendo pari dignità ai membri all’interno delle commissioni, spesso allestendo ambientazioni atte a minimizzare (almeno temporaneamente) i simboli di differenza funzionale e di status.

I riti di integrazione, invece, hanno come principale conseguenza manifesta il far sì che una serie di sottoinsiemi potenzialmente divergenti intensifichino le interazioni durante la comune partecipazione al rito, ravvivando sentimenti condivisi che servono a tenerli uniti e ad impegnarli nei confronti del sistema più ampio di cui fanno parte. Soltanto se il pubblico comprende membri di sottoinsiemi diversi il rito potrà produrre appieno il proprio effetto integrativo. Un esempio assai noto è il carnevale, in cui ogni formalità si scioglie in una grande convivialità e in cui tutti parlano con tutti e si sforzano di interagire con gli estranei.  Lo stesso meccanismo si cerca di produrre attraverso i convegni annuali degli ordini professionali, i festeggiamenti aziendali per il Natale o le scampagnate aziendali. I partecipanti sono indotti a comportarsi in modo simile al pubblico del carnevale: si radunano in gruppi per festeggiamenti e banchetti, spesso con abbondanti brindisi a base di alcolici e con forme relativamente disinibite di convivialità e speciali sforzi per interagire con gli estranei. Dirigenti e dipendenti di ogni grado interagiscono in ambientazioni e attività atte a ridurre la distanza sociale che li separa. Il consumo di alcolici riduce le inibizioni, consentendo così un’interazione meno controllata di quanto non si usi generalmente tra persone di status diverso, con scambi di pacche sulle spalle, abbracci, e altri segni di approvazione e affetto raramente adoperati nel normale ambiente di lavoro. Le evidenti funzioni latenti consistono nel consentire l’espressione di emozioni che non sarebbero consentite in altre occasioni, la sospensione dei codici rigidi di comportamento e al tempo stesso la preminenza e la legittimità dei codici stessi in virtù dell’evidente criterio di temporaneità ed eccezionalità con cui vengono sospese le normali proibizioni.[5]

Questo tipo di analisi non conforta, non distende, anzi, apre a nuovi dubbi e inquietudini: come preservare l’identità di un gruppo sociale quando deve confrontarsi con organizzazioni che offrono opportunità lavorative allettanti, come promuovere la volontà sincera del singolo all’interno dei meccanismi aziendali tanto complessi e a volte non strutturati appositamente ma frutto di tradizioni di cui si è persa la memoria e che pure persistono in forme residuali? Se prevarrà sempre la cultura e il profitto di chi comanda, non può che prodursi sopraffazione e prevaricazione.

La denuncia di piccoli gruppi è essenziale se si vuole ottenere un cambiamento, ma non può bastare da sola, la scelta è nelle mani di chi ha ruoli di potere e di chi si fa portavoce dei diritti del singolo; occorre far prevalere la dignità dell’altro, instaurando rapporti non violenti che aprano la mente e stimolino processi di confronto, promozione reciproca e crescita della consapevolezza, al di là del profitto immediato, per la costruzione di rapporti sociali rispettosi e duraturi nel tempo.


[1] Crespi F. (1999), Le vie della sociologia, Il Mulino, Bologna

[2] Solimini M. (1995), La materia culturale. Strutture, miti, riti, scambi, maschere. Adriatica Editrice

[3] Abravanel H., (1983), Mediatory myths in the service of organizational ideology, in Organizational symbolism. L. R. Pondy, P. J. Frost, G. Morgan e T. C. Dandrige (a cura di), pp. 273-293, Greenwich, CT: JAI Press, (Trad.it. in P. Gagliardi, a cura di, Le imprese come culture, ISEDI, Torino 1986)

[4]Abravanel H., (1983), Mediatory myths in the service of organizational ideology, in Organizational symbolism. L. R. Pondy, P. J. Frost, G. Morgan e T. C. Dandrige (a cura di), pp. 273-293, Greenwich, CT: JAI Press, (Trad.it. in P. Gagliardi, a cura di, Le imprese come culture, ISEDI, Torino 1986), pp. 105-117

[5] Trice H. M., Beyer J. M., (1984) Studying organizational cultures Through rites and cerimonials. Academy of managenent review 1984, 9/4, pp. 653-669. (Trad.it. in P. Gagliardi, a cura di, Le imprese come culture, ISEDI, Torino 1986) pp. 210-229