di Vincenzo Vestita
Lavoro in fabbrica da oramai quasi 11 anni. Può sembrare un tempo relativamente breve, ma in realtà è una vera e propria era geologica per quello che riguarda il “lavoro” nel suo senso più esteso. Passato sotto le forche caudine del “contratto formazione lavoro” dei primi due anni, la conferma a tempo indeterminato ha rappresentato per me, come per tutti i miei colleghi di lavoro sottoposti alla medesima “prova”, una liberazione non indifferente. In quei due anni la mediazione continua tra il traguardo della conferma da raggiungere ad ogni costo e il tentativo di conformare il proprio comportamento lavorativo al “pensiero dell’azienda” – anche a costo di rinunciare ad una parte consistente dei propri diritti – era la bussola che muoveva l’agire quotidiano dentro e fuori la fabbrica. Un infortunio sul lavoro, anche di lieve entità, era la cosa peggiore che ti potesse capitare; se non ti eri fatto troppo male era meglio prendere qualche giorno di ferie e non passare neanche in infermeria a farti visitare. La malattia seguiva a ruota. Partecipare ad uno sciopero o, in second’ordine, iscriversi al sindacato poteva equivalere ad una lettera di dimissioni volontarie. I lavoratori in procinto di andare in pensione, fossero essi operai o capi turno, si esercitavano continuamente nella pratica del dare “buoni e disinteressati consigli” alla giovane leva, così come i rappresentanti sindacali non si sognavano minimamente di “chiedere la tessera” a chi fosse ancora “a formazione”. L’avvicinarsi della scadenza del periodo di formazione era vissuto a metà tra la strizza di non vedersi confermato il contratto e un senso di liberazione per non dover più sottostare ad un sistema di regole non scritte insostenibile nel lungo periodo. Il contratto a tempo indeterminato, unito all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, equilibrava in qualche modo i doveri coi diritti, in un contesto difficile e pericoloso come può essere un siderurgico a ciclo integrale da 10 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno – non certo una fabbrica di cioccolatini come a volte qualcuno sottolinea per giustificare il pesante impatto di questo gigante sul territorio.
Ma anche dopo la conferma a tempo indeterminato, anche se in misura minore e senza raggiungere la vergogna della palazzina LAF, il “pensiero dell’azienda” deve essere tenuto in conto per una serie di altri fattori. La velocità di ottenimento degli avanzamenti professionali previsti dagli inquadramenti o alcuni premi a discrezione dell’azienda continuano ad essere subordinati al comportamento dei singoli lavoratori, cosicché, ad esempio, gli scioperi, oltre alla perdita della retribuzione della giornata lavorativa, comportano un rallentamento o un arresto dell’avanzamento professionale e la matematica esclusione da questi premi extra contratto. Le parole di scherno con cui quei lavoratori che non partecipano a nessun momento di rivendicazione rivolgono a coloro che credono che niente cada dalla “tavola riccamente imbandita” per caso (ma che sulle spalle di questi ultimi raccolgono i massimi risultati possibili), dimostra, casomai ce ne fosse bisogno, che la strategia del “divide et impera” vecchia di 3.000 anni è sempre la più valida se usata con sapiente maestria. Chi alla dignità dà un valore superiore a una o due migliaia di euro l’anno, stringe i denti e cerca di resistere.
La selva di contratti a tempo determinato prevista dalla legge 30/2003 arriva temporalmente appena dopo che il ricambio della forza lavoro in fabbrica aveva superato il suo punto di maggior criticità. La flessibilità in entrata, che doveva agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro, si è rivelata ben presto come una precarietà senza via d’uscita per un numero sempre crescente di lavoratori; e il “posto fisso” è diventato una chimera irraggiungibile. La “grande fabbrica” ha iniziato, intorno al 2007-2008, a servirsi di un numero consistente (diverse centinaia) di lavoratori assunti con contratti a termine, solitamente di 3 o 6 mesi, che di solito venivano riconfermati a più riprese fino all’approssimarsi della scadenza temporale; oltre quest’ultima, sommati i mesi complessivi, in base ad un accordo sindacale che aveva regolamentato l’utilizzo in fabbrica di questa tipologia di contratti, era obbligatoria l’assunzione a tempo indeterminato. La frustrazione dei lavoratori cosiddetti “interinali”, unita alla tracotanza aziendale nell’utilizzare i lavoratori per il tempo sufficiente ad evitare l’obbligo di assunzione e ad un accordo sindacale scritto coi piedi – poiché non vincolava l’assunzione di neanche uno di questi lavoratori – ha provocato quella mistura esplosiva che ha portato anche a manifestazioni eclatanti.
Alla domanda su cosa porti un’azienda come quella in cui lavoro, solida dal punto dal punto di vista economico, a perseguire un ricambio continuo di forza lavoro, perdendo quel prezioso bagaglio di esperienza accumulato, mi sono sforzato di trovare qualche risposta. Innanzitutto questi lavoratori svolgevano mansioni molto umili, solitamente di pulizie industriali. Pochissimi di questi – dalla mia esperienza diretta una percentuale veramente trascurabile – ha svolto attività legate direttamente alla produzione. Per di più questi lavoratori costano il 10-15% in più rispetto ai diretti, per la quota da corrispondere all’agenzia per il lavoro, che va sommata alla normale retribuzione prevista dal contratto di categoria. “Piegare” questi lavoratori ad un certo tipo di logica, che io avevo conosciuto per i primi due anni, tenerli costantemente sulla corda con l’illusione di un “monotono” posto fisso a spalare fanghi di ogni tipo, colore e puzza per il resto della vita lavorativa, probabilmente valeva il sovrapprezzo pagato. Se consideriamo anche che il reale “datore” di lavoro è l’agenzia e non l’azienda, il quadro che ne scaturisce è tanto surreale quanto disperato per chi in questo quadro si trova costretto.
Confesso che le parole di qualche giorno fa della Presidente di Confindustria, la signora Marcegaglia, per cui i sindacati dovrebbero smettere di difendere ladri ed assenteisti, mi hanno fatto perdere per qualche secondo il mio naturale aplomb, spingendomi a produrre una sonora e alquanto risentita esclamazione alla Gennarino Carunchio nel film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Se qualche giorno di malattia l’anno (da contare sulle dita di una mano) quando proprio non ce la faccio possono, al limite, far di me un assenteista agli occhi dei “padroni”, ladro proprio non lo posso accettare. Tanto più che i ladri accertati le aziende possono licenziarli senza che i sindacati possano proferire parola. La mia lo fa spesso e volentieri, come riportano le cronache dei giornali locali. L’articolo 18 va abolito non perché rappresenta un freno agli investimenti esteri (servirebbe un altro articolo solo per elencare gli elementi che veramente frenano lo sviluppo del nostro Paese), ma per riprendersi quello che la Marcegaglia, e non solo lei, probabilmente considera un furto, ossia la facoltà del lavoratore di poter decidere se scambiare o meno anche l’anima con “poco più che un tozzo di pane”, in un contesto dove chi non ha neanche quello è disposto a fare quello che fai tu per metà del tuo “tozzo di pane”. Ma l’articolo 18 non va difeso ed esteso solo perché rappresenta l’unico modo efficace per tutelare la dignità nel lavoro. Molto probabilmente senza l’articolo 18 il punto di vista di un lavoratore, espresso con libertà non senza pagarne un prezzo, tanto dal palco di una manifestazione per l’ambiente quanto dalle pagine di un blog, non ci sarebbe.