Oltre il mito della “vertenza Taranto”

di Salvatore Romeo (’84)

I quotidiani dell’ultima settimana ci hanno raccontato del viaggio che il sindaco Stefàno e il presidente della provincia Florido hanno computo alla volta di Roma. Obbiettivo della trasferta aprire una nuova “vertenza Taranto” che avesse al centro il risanamento ambientale del territorio e il suo sviluppo. Prescindendo dagli esiti dei colloqui avuti con esponenti del governo – a dire il vero pare che i due siano stati ricevuti soltanto dal capo di gabinetto del Ministero per lo Sviluppo Economico – è interessante soffermarsi sulle intenzioni della visita. Cioè a dire sulla forma e sul contenuto che i rappresentanti della nostra comunità avrebbero voluto darle.

Partiamo dall’espressione che è stata utilizzata per definire l’incontro col governo: “vertenza Taranto”. Il richiamo esplicito è all’esperienza che fu fatta nella seconda metà degli anni ’70. La conclusione dei lavori di “raddoppio” dello stabilimento siderurgico pose il problema della “disoccupazione di ritorno”, che riguardava almeno 6.300 unità impiegate fino a quel momento dalle aziende appaltatrici che avevano contribuito all’ampliamento della struttura del centro. Per ottenere un collocamento stabile a tutti i lavoratori in questione i sindacati avviarono appunto la cosiddetta “vertenza Taranto”, destinata a protrarsi per diversi anni. Sostenuta dalla giunta di sinistra insediatasi nel 1976 – sindaco Giuseppe Cannata – la trattativa col governo e con l’azienda impose alla stessa Italsider di assumere direttamente parte del personale in esubero e di affidare alle imprese presso le quali restavano inquadrate le restanti unità nuovi lavori di manutenzione. Ne derivarono conseguenze abbastanza pesanti per l’Italsider: in una fase in cui, complice la crisi che si era manifestata a partire dal 1974 a seguito dello shock petrolifero, lo stabilimento marciava al 70-75% della sua capacità produttiva, il numero degli occupati diretti dello stabilimento aumentò più del doppio – passando da 9 mila a circa 21 mila –, mentre le spese per prestazioni di terzi (appalti) nell’intero complesso Italsider crebbero – soprattutto a causa della politica di espansione dell’indotto realizzata a Taranto – del 206% fra 1975 e ’80, passando dal 7 al 10% del fatturato netto. Si tenga conto che tutto ciò avvenne nel corso di quella che può essere considerata la fase più delicata per un impianto industriale di quella vastità: l’avviamento. Taranto, che fino a quel momento aveva trainato la siderurgia pubblica – oberata del peso di stabilimenti ormai antiquati come Bagnoli o segnati da profondi limiti strutturali come Cornigliano –, iniziò a sua volta a produrre perdite, trascinando il gruppo di cui era parte verso la catastrofe.

Ma non è soltanto agli esiti per l’azienda che si deve guardare nel tentativo di esprimere un giudizio sulla “vertenza Taranto”. Ciò che salta agli occhi ad un’analisi retrospettiva è l’incapacità della comunità e del governo di immaginare una soluzione al grave problema della disoccupazione di ritorno basata su una diversificazione produttiva. Serie a questo proposito le responsabilità della sinistra sindacale e politica. Si può ipotizzare che si sia consolidata allora quella visione che ancora oggi assegna al polo siderurgico un’importanza cruciale per l’economa e la società locali. Una visione miope, che non tiene conto di due elementi fondamentali: l’elaborazione teorica che contribuì a portare la siderurgia a Taranto e il rapporto che questa ha invece sempre intrattenuto con le grandi aziende nazionali.

Si può dire che nell’elaborazione stessa del siderurgico meridionale vi fosse un “equivoco” di fondo: esso fu proposto in prima battuta da uno dei più autorevoli esponenti del cosiddetto “nuovo meridionalismo”, Pasquale Saraceno, fra i fondatori della SVIMEZ. Per Saraceno – che scrive dell’opportunità di realizzare un centro siderurgico al Sud già nel 1956 – quel progetto avrebbe dovuto essere propulsore della nascita di un sistema industriale locale, esteso alle provincie limitrofe e in grado di interagire con iniziative che nel frattempo sarebbero sorte in altre aree del Mezzogiorno. Il progetto incontrò soprattutto l’opposizione della Confindustria e, in un primo momento, del gruppo siderurgico pubblico, la Finsider. Quest’ultimo si persuase dell’opportunità di realizzare Taranto solo quando uno dei suoi più brillanti dirigenti, Mario Marchesi (che sarebbe diventato di lì a qualche anno presidente della principale azienda del gruppo, l’Italsider), pensò che la produzione del nuovo centro avrebbe potuto comunque alimentare la produzione delle unità già presenti al Nord, on prossimità dei principali mercati di sbocco (Cornigliano soprattutto, cui si sarebbe aggiunto il potente laminatoio di Novi Ligure a partire dai primissimi anni ’60). A questo punto però l’indirizzo di Taranto cambiava drasticamente: non più vettore per lo sviluppo locale, ma strumento della strategia industriale dell’Italsider, interessata soprattutto a soddisfare l’intensa domanda delle produzioni di autoveicoli ed elettrodomestici delle regioni del Nord (erano gli anni del boom economico e d’altra parte la FIAT aveva attivo sin dal ’52 un contratto di fornitura privilegiata con lo stabilimento di Cornigliano). Negli anni a venire questa direttrice sarebbe stata perseguita con coerenza, al punto che dal 2005, con la chiusura dell’area a caldo e la ristrutturazione degli impianti di laminazione a freddo di Cornigliano, Taranto è diventato il solo produttore italiano di laminati piani in grandi volumi, strettamente integrato col centro genovese e con quello di Novi. Quanto ai tentativi di realizzare, in loco, a valle dello stabilimento attività di trasformazione dei suoi prodotti, a parte qualche progetto rimasto però sulla carta (il più interessante uno studio commissionato dalla CEE all’Italconsult agli inizi degli anni ’60 per la realizzazione di un “triangolo industriale” avente come poli Taranto, Bari e Brindisi), nulla si è visto: il consumatore più vicino dei suoi prodotti è rimasto, dagli anni ’70, lo stabilimento (prima Alfa Sud, poi FIAT) di Pomigliano d’Arco. In definitiva, lo stabilimento siderurgico è localizzato a Taranto, ma non si può certo dire che sia integrato nella struttura industriale locale. Resta persino difficile immaginare una struttura integrata per l’industria locale, ma di questo diremo in seguito.

Il non aver colto questo elemento ha forse contribuito alla crisi che si è abbattuta sulla sinistra jonica dal momento in cui divenne indispensabile la razionalizzazione del siderurgico. Questo è stato un processo lungo e tortuoso, svoltosi nel corso di tutti gli anni ’80. La manodopera impiegata direttamente dal centro è stata ridotta drasticamente, al punto che nel 1995, alla vigilia della privatizzazione, gli addetti assommavano a circa 12 mila unità. Una evoluzione che ha letteralmente tolto la terra da sotto i piedi alle forze politiche e sindacali che fino a quel momento si erano identificate col movimento operaio, creando una voragine da cui sono emersi fenomeni inquietanti – su tutti il citismo. Risulta infatti ancora tutto da spiegare il brusco capovolgimento di fronte che vide interi quartieri che avevano assegnato alle forze di sinistra (e al PCI in particolare) maggioranze bulgare convertirsi al verbo del Masaniello dei due mari. Nel “brodo di coltura” che consentì l’affermarsi di quella tendenza politica – la cui cifra era il desiderio di dissolvere il sistema di mediazioni sociali consolidatosi fino a quel momento – quanto ha contato il “risentimento” dei cassintegrati o dei prepensionati Italsider, improvvisamente marginalizzati e declassati, o dei loro figli, cui veniva definitivamente precluso quello sbocco lavorativo dato fino ad allora come quasi certo?

Ma nonostante le lezioni della storia, come dimostra la stessa citazione di Stefàno e Florido, la “vertenza Taranto” resta un mito della sinistra jonica. Il che dimostra quanto questa sia ancora subalterna al paradigma che quell’espressione richiama – sebbene nell’accezione corrente esso risulti ribaltato: abbiamo infatti un “industrialismo senza movimento operaio”, mentre negli anni ’70 l’industrialismo era un mezzo per la creazione di un forte movimento operaio. Eppure, potrebbe far notare chiunque abbia letto il documento che il sindaco e il presidente – sentita la “Consulta per lo sviluppo” (organo che riunisce le associazioni sindacali e datoriali della provincia) – hanno sottoposto al governo, in quel testo di tutto si parla meno che di industria. Ed in effetti è così: i punti esposti sono gli stessi che da qualche tempo rimbalzano nel dibattito politico locale: in primo luogo le sacrosante bonifiche delle aree SIN (sito di interesse nazionale) – la cui istituzione risale al 1999 –; in seguito, infrastrutture – con la realizzazione di una grande piastra logistica (porto) integrata a valle con opere di trattamento e smistamento –; e, infine, valorizzazione di pesca e turismo. Ci sia consentito dire che, prescindendo dal primissimo punto, la visione dello sviluppo locale che Stefàno e Florido dimostrano è “da anni ’50”. O meglio, da moderatismo anni ’50. Allora erano proprio Confindustria e le componenti più conservatrici del quadro politico a sostenere, di fronte a quanti (fra gli altri il già citato Saraceno) richiamavano l’urgenza di un intervento pubblico nel Sud maggiormente orientato verso le attività produttive, che per quelle regioni bastava l’opera di infrastrutturazone portata avanti dalla Cassa del Mezzogiorno e che, al più, i meridionali avrebbero dovuto sviluppare le proprie “vocazioni”: agricoltura e turismo, appunto. Ma la critica che si deve muovere alle posizioni espresse da sindaco e presidente – e con loro da una parte significativa delle classi dirigenti locali – non è tanto di “tradimento della propria storia” (non è il primo, non sarà l’ultimo), ma di insipienza delle ragioni del declino economico della nostra provincia. Di questo ho già scritto diffusamente in un’altra occasione, per cui mi limiterò a segnalare che sindaco, presidente e notabili locali sembrano ignorare che la provincia di Taranto vive da diversi anni un declino industriale che riguarda i comparti manifatturieri cosiddetti “tradizionali” e, in essi, le piccole e medie imprese in particolare. A ben vedere questa crisi precede lo scoppio della bolla che ha affossato le economie più avanzate ed ha una ragione più profonda: la concorrenza che i paesi emergenti hanno portato in quei settori. Concorrenza difficilissima da contrastare, dal momento che si tratta di comparti ad alta intensità di lavoro, presso i quali ha dunque un peso decisivo il basso costo della manodopera vigente nei paesi di più recente industrializzazione. Questo arretramento sta aggravando il dualismo che “da sempre” caratterizza il tessuto produttivo della nostra provincia: se da una parte si manifesta una desertificazione in settori come il tessile, l’industria del mobile e quella delle confezioni, dall’altra le grandi imprese sono le sole a poter affrontare la difficile congiuntura con investimenti di ampia portata.

Alla luce di queste evidenze le proposte estese da Stefàno e Florido non sono semplicemente deludenti, ma persino controproducenti: nella misura in cui crescerà la capacità di stockaggio del porto tanto più la nostra provincia si aprirà alla concorrenza internazionale, con conseguenze imprevedibilmente gravi per le sue produzioni. Ma non solo: quelle proposte, omettendo il problema della ricostruzione del tessuto industriale locale, sembrano alludere al fatto che la sola industria possibile a Taranto e dintorni sia quella portata dai grandi gruppi (si tratti di ILVA, ENI, Cementir, Vestas o Alenia-Finmeccanica). Visione perfettamente coerente con il paradigma insito nella “vertenza Taranto”: non può esistere nessuna iniziativa che promuova diversificazione rispetto al quadro produttivo corrente. A meno che non si voglia spacciare come “diversificazione” il recupero di pesca e turismo. Ma con tutto il rispetto per i non pochi “bucolici” che affollano la nostra opinione pubblica – la cui influenza a quanto pare è arrivata a condizionare persino le due massime autorità politiche locali –, dovrebbe essere chiaro che stiamo parlando di comparti a basso valore aggiunto, con capacità di assorbimento di manodopera quanto mai limitate e – quel che è peggio – con una domanda di addetti scarsamente qualificati.

Piuttosto in questi giorni gira in rete l’esempio di Pittsburgh – ne ha parlato lo stesso prof. Marescotti in una lezione tenuta qualche giorno fa all’Istituto Liside. Bene ha fatto Vincenzo Vestita a segnalare le differenze profonde con la situazione di Taranto, ma una cosa quell’esempio segnala: le diversificazioni (e, ancor più, le riconversioni) per avere successo devono essere fatte seguendo verso l’alto la catena del valore aggiunto, promuovendo iniziative nei settori più avanzati, ad elevato contenuto tecnologico, in grado di creare buona occupazione. Altrimenti si chiamano in un altro modo: de-industrializzazioni. Su questo dovrebbero riflettere autorità, organizzazioni sociali, parti politiche e “cittadini attivi”. Uscire dal paradigma della “vertenza Taranto” diventa a questo scopo indispensabile, soprattutto per chi voglia seriamente costruire un’alternativa allo stato di cose presente.