Più forti del dolore

“La mia città è in rovine…
E ora con queste mani
con queste mai
con queste mani
io prego il Signore
Prego il Signore per avere fede
Prego il Signore per avere forza
Forza! Forza! Forza!
Forza risolleviamoci!” (Bruce Springsteen, My city of ruins)

Non tutte le morti sono uguali. Diverso è il modo di percepirle ed elaborarle. La morte, per gli uomini, non è mai stato il fatto bruto del non esistere più: è sempre stata caricata di contenuti simbolici talvolta fortissimi la morte. Questo è successo nel caso di Claudio Morabito.
Come hanno spiegato bene quelli che lo conoscevano (Gaetano e Greta dalle colonne di Siderlandia) Claudio era una sorta di “collante generazionale”, che teneva assieme tante e diverse esperienze: il tifo e la politica, la questione ambientale e quella sociale, lo sport popolare e la musica. Claudio era un crocevia, dal quale ogni giovane che volesse vivere davvero la propria città – e non da spettatore passivo – doveva passare. Per il semplice fatto che lui era dappertutto.
Questo basta a spiegare la valanga emotiva che si è sprigionata alla notizia della sua morte? L’afflusso continuo e disperato al Santissima Annunziata, i funerali diventati corteo – una cosa che Taranto mai ha conosciuto di recente e forse mai più conoscerà –, le miriadi di dediche lasciate sulle bacheche di facebook… Io credo di no, credo che tutto questo non lo si possa spiegare con la semplice “popolarità” di Claudio. Azzardo: questa morte rappresenta un punto di svolta per la mia, per la nostra generazione. O ne usciremo rafforzati o perderemo del tutto energia e voglia di fare.
Anzitutto, questa morte ha un retroterra. Chi è giovane a Taranto è più o meno conscio di vivere in una condizione “catacombale”. Le cose che fa – a meno che non si tratti di violazioni della legge (rapine o manifestazioni non autorizzate) – sono sistematicamente destinate a non conquistare le prime pagine dei giornali. Quanto alla politica…si direbbe che le “politiche giovanili” siano solo una bella definizione destinata ad arricchire le nomenclature delle giunte comunali e provinciali. Il nostro è “un mondo sotto il mondo”, ignorato e tenuto a bada vuoi dal clientelismo vuoi dal manganello.
Nell’underground non si vive poi tanto male, ma quello che si impara molto presto è camminare in punta di piedi, sgattaiolando da una caverna all’altra senza destare troppi sospetti. E soprattutto si impara che il Potere è una cosa che sta troppo in alto per essere alla propria portata. Le manifestazioni che si inscenano sono quasi sempre più testimonianza che segno di forza. In definitiva, ci si percepisce impotenti (nel senso proprio del termine: “incapaci di cambiare le cose”).
La morte di Claudio ha fatto da detonatore su tutto questo. Improvvisamente una generazione è uscita allo scoperto e ha ostentato i simboli elaborati e coltivati da anni. Lo ha fatto con un orgoglio che mai prima d’ora si era visto. Le bandiere rosse con l’effige di Che Guevara accanto alle sciarpe degli ultras; Vasco Rossi e De Andrè; il corteo e la curva. D’altra parte lo stesso Claudio aveva forse intuito che da quelle catacombe bisognava uscire per riprendersi voce e presenza. Una delle ultime creature di questo straordinario animale politico (per chiunque lo abbia conosciuto una carica di carisma quasi irresistibile) è stata proprio “Ammazza che piazza”: un tentativo di riprendersi la città palmo per palmo, mettendo in evidenza degrado urbano e sociale – e quindi l’incapacità di chi quei problemi avrebbe dovuto risolverli (le istituzioni) o quanto meno denunciarli (le forze politiche). Essere nella corrente della città, non fossilizzarsi in luoghi statici e chiusi, mostrare che un altro tipo di vita urbana sarebbe possibile (se solo vi fosse la volontà di attuarla): questi gli assi sui quali si sono mossi i ragazzi in questi mesi. E tutto ciò ha creato attorno al movimento una scia di consensi incredibile. Eh già, perché questa volta lo spazio di cui ci si è “riappropriati” è stato restituito – dopo avergli ridato dignità – alla comunità. Mostrando così alla stessa comunità che se vuole, autorganizzandosi, può vivere una vita migliore. E si badi, non di semplice “nettezza urbana” si tratta: la comunità che si riprende il suo spazio diventa consapevole dei problemi che in esso ci sono e, lavorandoci, acquisisce coesione e forza rispetto alle istituzioni. E inizia a pretendere che queste facciano il loro dovere in relazione a tutte quelle questioni che i cittadini da soli non possono risolvere. Insomma, in prospettiva può innescarsi un corto circuito politico in grado di infrangere le barriere di cristallo che separano il corpo della città dai suoi centri decisionali.
Tutto questo a patto che la morte di Claudio venga rielaborata nel migliore dei modi. Non mi riferisco solo al fatto che chi più gli ha voluto bene e gli è stato vicino deve al più presto riprendersi dal trauma e, ricordando la sua esagerata voglia di vivere, tornare a lottare come e più di prima. Penso soprattutto a tener vivo quello spirito che si è respirato nei giorni del lutto: il sentirsi fratelli e vicini, nonostante le differenze e le distanze, riversandosi nello spazio pubblico (non solo quello fisico di strade e piazze, ma anche quello “immateriale” del dibattito culturale e politico). Se tornassimo nelle catacombe, in questo momento, c’è il fondato rischio che vi rimarremmo reclusi per sempre. “Forza, risolleviamoci!”.

Siderlandia si mette a disposizione di chiunque voglia porsi lungo questa prospettiva. Invitiamo tutti quelli che credono che si possa costruire un forte protagonismo giovanile nella nostra città a inviarci i loro contributi: saranno tutti pubblicati. Iniziamo a parlare del nostro presente e del nostro futuro, riprendiamoci “la parola e la verità”! (S.R. ’84)