La disuguaglianza crescente è giustificabile?

di Roberto Polidori

La giustificazione economica e morale della disuguaglianza fra classi affonda le proprie radici nella notte dei tempi, ma si organizza in teoria organica durante la Rivoluzione Industriale inglese con Adam Smith, Malthus e Ricardo.
Adam Smith, in particolare, è considerato il fondatore della scienza economica moderna; è uno scozzese di famiglia molto agiata – figlio di un esattore del dazio – studente all’Università di Oxford, dove finirà per insegnare. Per lui il bene pubblico è massimizzato perseguendo la ricchezza privata; «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birrario, del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo. […] L’individuo è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. […] Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto nel promuovere il bene della società da coloro che pretendono di trafficare per il bene pubblico»(1). Si tratta della famosa mano invisibile citata nella Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che si tradurrà successivamente nella teoria economica tuttora dominante (il liberismo) attraverso le costruzioni matematiche di ingegneri mancati (cfr. le curve di Pareto). Chi di noi non ha mai subito l’irresistibile fascino della competizione? Nessuno. Tutti, più di una volta, siamo entrati in competizione. Ecco: la competizione umana in capo economico si traduce nella massimizzazione del profitto del singolo e compito dello Stato deve essere quello di eliminare tutti gli ostacoli al conseguimento del successo economico personale; il mercante e l’industriale, senza i lacci ed i lacciuoli di uno Stato tiranno, potrà così intraprendere con maggior successo (o soccombere) lasciando all’imprenditore la possibilità di espandere la sua attività assumendo la manovalanza e perseguendo in modo indiretto anche l’interesse dello Stato attraverso l’imposizione fiscale bassa.
Il successo clamoroso del pensiero smithiano si spiega per due ragioni: 1) si adegua alle più sfrenate ambizioni dell’intellighentia allora dominante (gli industriali) come il guanto elastico alla mano; 2) può essere facilmente tradotta in assiomi, ossia in frasi talmente logiche da non dover essere dimostrate; questi assiomi si trasformeranno successivamente in belle formule matematiche – gli assiomi servono a questo – che ne sanciranno la veridicità assoluta. La matematica permetterà la perpetuazione in leggi di semplici pensieri che, come tali, sono il frutto di istruzione ed influenze assimilate nell’ambito socio-culturale di provenienza.
Ai tempi di Smith i primi operai delle fabbriche erano i contadini nullatenenti strappati dai latifondi dei grandi proprietari terrieri; il loro destino era segnato: morivano presto e male e crepare di stenti su un terreno o in una fabbrica non faceva grossa differenza. L’unica giustificazione morale a questa visione “di classe” del successo era,appunto, il conseguimento di un fine sociale indiretto.
La visione classista della teoria economica è spudorata in Malthus e Ricardo, pastore anglicano aristocratico il primo e ricco figlio di agente di cambio il secondo; è talmente sbilanciata a favore delle classi dominanti da stimolare la reazione marxista – guardacaso Marx vivrà in ristrettezze economiche.

Il grosso problema di chi voglia criticare la teoria economica dominante è duplice: 1) smontare l’apparente oggettività delle rappresentazioni teoriche elaborate con metodi matematici; 2) intaccare quel muro di omertà e di accondiscendenza che il mondo accademico – non tutto ovviamente e per fortuna – sembra alzare tra la realtà dei fatti ed il pubblico sempre più attonito.
In relazione al secondo punto in particolare, il comportamento ammiccante nei confronti dello status quo sembra ovvio quando si accerta (come è certo) una convergenza di interessi economici tra mondo accademico, mondo della finanza e panorama politico: gli esempi di amministratori delegati che diventano ministri non mancano, come sono numerosi gli esempi di Presidenti del Consiglio ex professori universitari o Presidenti della Fed ex AD di grosse banche d’affari. E’ sempre stato così – in Italia e all’estero, ai tempi di Smith come oggi – e il rischio di questa commistione ci sarà sempre. Parliamo di soldi e potere.
Ora che la gente comune della classe media dei paesi ad economia matura comincia a protestare in modo vibrante perché vede le sue certezze scomparire velocemente, uno stuolo di accademici asserisce che il sistema ha si i suoi problemi, ma è il migliore possibile, nonostante la disuguaglianza crescente.
Ed è proprio a questo punto che chi vuole criticare la teoria dominante senza essere tacciato di ideologia – “sei comunista, quindi di parte, quindi sorpassato quindi non attendibile” – deve necessariamente sporcarsi le mani, scendere sullo stesso campo da gioco (quello scientifico o presunto tale) e cercare di dimostrare, dati alla mano che gli assiomi di Smith sono sicuramente validi da un punto di vista individuale, ma sono assolutamente sballati e pericolosi quando adattati alla collettività tutta, perché le leggi di uno Stato devono tutelare le persone più esposte dalla bramosia di profitti di quelle più forti o più dotate intellettualmente altrimenti un governo diventa un regime. Costui deve mettere anche una bella luce negli angoli bui di una materia, l’economia, non così complessa come la si vorrebbe far credere da parte di chi si nasconde dietro la matematica applicata. Le formule ed i calcolatori servono, certo, ma trattandosi di una scienza umana, in economia valgono, forse, più le analisi di buonsenso e lo studio della storia passata, cioè lo studio della reazione delle popolazioni a determinate situazioni, ed anche un sano senso di giustizia. Insomma: non è detto che gli “addetti ai lavori” non sbaglino quindi, per cortesia, si sforzino di farci capire ciò che dicono.
E allora affidiamoci alla storia per mezzo di due semplici grafici.

La prima figura rappresenta l’andamento della concentrazione della ricchezza nelle mani dell’1% più ricco della popolazione statunitense negli ultimi 100 anni. La fonte è un’articolo di Rampini pubblicato su Repubblica il 19/09/2011. La teoria liberista prevede una bassissima imposizione fiscale sulle classi più abbienti, una situazione normale negli Stati Uniti di inizio ‘900, quando il liberismo sfrenato portò all’accumulazione di ricchezze immense nelle mani di pochissime persone. Poi ci fu la Grande Depressione, Roosevelt attuò ricette Keynesiane – cioè l’intervento di uno Stato forte con grande redistribuzione di redditi dai più ricchi ai più poveri con livelli di imposizione fiscale al 75% del reddito prodotto dai ricchi – quindi, con gli anni ’80, il liberismo tornò di moda senza abbandonarci più finora. Come si vede la famosa frase del Presidente americano Ronald Reagan “leggete sulle mie labbra: niente più tasse” ci ha condotto, insieme con una politica di facile indebitamento, ad una situazione ante Grande Depressione quanto a concentrazione della ricchezza. Mi sembra che anche dal punto di vista della crisi economica siamo più o meno nella stessa situazione. Quindi l’assioma liberista “più libertà, meno regole, più concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi = più ricchezza per tutti “ a me sembra completamente sballato. C’è qualcuno già ricco che fa festa, molti altri che, senza Stato, diventano poveri.
Del resto, se economisti di spessore come Guido Rossi, Fitoussi, Galbraith, Krugman e tanti altri dicono proprio che il problema grosso del sistema è l’aumento della discrepanza tra più ricchi e più poveri, ci sarà da dubitare sulla validità della basi teoriche del capitalismo? O no?
E in Italia come va?

La figura soprastante sintetizza l’incremento di concentrazione dei guadagni prodotti e distribuiti nei paesi OCSE – i paesi con le maggiori economie mondiali – dal 1985 al 2000. La fonte è l’OCSE e la pubblicazione è recentissma: è datata 5 Dicembre 2011. Senza entrare nel dettaglio dell’indice considerato – è sostanzialmente un indice di concentrazione – possiamo asserire tranquillamente che l’Italia è il paese sviluppato più diseguale al Mondo dopo Stati Uniti ed Inghilterra; guardacaso è anche uno dei paesi dove la crisi ha colpito e colpisce maggiormente.

La storia ed i numeri ci offrono due lezioni: 1) il sistema liberista funziona fin quando ha dietro lo Stato, nel senso che deve intervenire lo Stato per redistribuire l’eccesso di ricchezza quando questa si concentra troppo nelle mani di pochi onde permettere alla massa impoverita di tornare a consumare. Tutto questo finchè vogliamo un’economia di mercato basata sui consumi. 2) il capitalismo è intrinsecamente instabile; necessita, per funzionare, di, appropriazione privata di risorse pubbliche; 3) il processo di riaggiustamento continuo si realizza attraverso conflitti di ogni tipo: conflitto sindacale, conflitto di classe, conflitto armato tra gruppi d’interesse all’interno di un paese e tra i paesi. Insomma: la concertazione tra classi va bene fino ad un certo punto. Poi o ci si schiera da una parte o dall’altra.

Da un punto di vista teorico, quindi, sono convinto che il paradigma economico che lo zombie Europa s’è data non sia giustificabile, come non sono auspicabili le ricette di intervento che vari governi tecnici stanno attuando nel tentativo di rianimare il continente
Da essere umano e padre provo risentito sdegno nei confronti di chi ritiene queste accentuate e crescenti disuguaglianze necessarie e tollerabili e, nel ricordare che la multinazionale privata del farmaco Roche ha sospeso la fornitura di farmaci antitumorali ai malati di diversi ospedali Greci, demando il mio pensiero conclusivo ad un economista, J.M. Keynes: «Il problema economico, ovvero il problema del bisogno e della miseria, e la lotta economica fra classi e paesi, sono storture terribili, ma contingenti e non necessarie»