C’era una volta il Welfare? Appunto per il Presidente Vendola

di Antonio Anteneh Mariano

Il governatore della Puglia, Nichi Vendola, ha dichiarato al Corriere della Sera (8/06/2011) che ‎”…anche la sinistra radicale deve accorgersi, per esempio, che non si può tenere in piedi il vecchio welfare.” A parte il tempismo rispetto ai dubbi sollevati dal segretario del PD, Bersani,circa la sua affidabilità politica, incuriosisce un’altra coincidenza: il giorno dopo è stato reso pubblico il “Rapporto sui diritti globali 2011″ (curato da una serie di soggetti sociali, fra cui la CGIL) che ha rilevato come il 78% dei tagli praticati nel corso dell’ultimo anno alle finanze pubbliche siano stati diretti proprio contro il welfare. In attesa di capire quale sia il “nuovo” welfare che l’ineffabile Nichi vuole porre al posto del “vecchio” ci permettiamo di rivolgere al Governatore un appunto sulle origini e l’evoluzione di quel sistema. Chissà che non gli schiarisca le idee sul tipo di politiche economiche e sociali che sarebbe necessario perseguire in una fase di crisi acuta come quella che stiamo attraversando.

A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento le funzioni dello Stato in campo socio-economico vanno estendendosi significativamente. Anzitutto, le leggi sui limiti dell’orario di lavoro, sul rispetto di particolari standard igienico-sanitari, sull’istruzione delle classi povere costringono le istituzioni ad espletare varie forme di controllo sulle relazioni industriali. In secondo luogo, alcuni paesi (esemplare la Germania di Bismark) iniziano a promuovere forme di assistenza per i lavoratori: soprattutto l’assicurazione obbligatoria e statale sugli infortuni e sulla malattia – che sarebbe stata di seguito estesa alla vecchiaia. Infine, l’intervento dei poteri pubblici inizia ad addentrarsi anche nel cuore dell’economia. Dopo i tentativi falliti degli atelieurs nationaux di Louis Blanc – ministro socialista dell’effimero governo sorto dalle barricate parigine del 1848 –, lo Stato inizia ad intraprendere azioni sempre più incisive nei confronti dell’economia. In genere animati dalla volontà di promuovere lo sviluppo dell’economia nazionale, i paesi di più recente industrializzazione (Germania e Stati Uniti, ma anche Italia e Russia) non esitano a rinnegare il liberoscambismo e il laissez faire degli economisti classici. Il protezionismo si intreccia ad un indirizzo della spesa pubblica sempre più orientato verso obbiettivi di politica industriale (la siderurgia e la meccanica pesante, in particolare, sono sostenute – e talvolta suscitate – dalla spesa bellica). Contestualmente, gli Stati non esitano a fare uso dei rispettivi eserciti per espandere i mercati di sbocco e conquistare nuove fonti di materie prime. L’imperialismo si presenta come un gioco a somma zero fra grandi potenze economico-militari; un gioco che si spezza con le pistolettate all’arciduca Francesco Ferdinando all’inizio dell’estate del 1914.

La Grande Guerra impone un intervento ancora più intenso dello Stato nell’economia e nella società. Le prime forme di sistema sanitario nazionale si iniziano a sperimentare in quel contesto; così come i tentativi di pianificazione centrale delle attività produttive. Nel dopoguerra questi ultimi verranno continuati solo dalla Russia bolscevica; mentre in Europa occidentale prenderà forma sempre più definita quel modello di protezione sociale che sarebbe divenuto noto, dopo un altro terribile conflitto, come Welfare State. Se non ha portato la rivoluzione, la guerra mondiale ha senz’altro fatto avanzare i movimenti operai nazionali in tutti i paesi industrializzati. Nell’Europa degli anni ’20 l’affermazione delle sinistre si traduce nell’introduzione di sussidi di disoccupazione, in politiche abitative favorevoli ai ceti popolari, nel riconoscimento di forme più o meno incisive di partecipazione dei lavoratori alla direzione delle fabbriche.
Ma le basi del sistema si rivelano fragili. I debiti di guerra, i risarcimenti imposti agli sconfitti e le spese di ricostruzione alimentano un circuito finanziario che attraversa le due sponde dell’Atlantico. La bolla s’ingrossa fino ad esplodere: è il grande crack. Di fronte alla catastrofe gli Stati riprendono forme d’intervento massiccio. Questa volta cadono nella rete delle istituzioni pubbliche direttamente la produzione e il credito e si torna a praticare anche in Occidente la pianificazione. L’industria e la banca di Stato non sono più viste come bestemmie o assunti eversivi. Contestualmente tutte le opzioni politiche che emergono dalla confusione del momento – il New Deal come il Nazismo, lo Stalinismo come il Fascismo – promuovono un rafforzamento dei servizi di protezione sociale nei rispettivi paesi. Questa tendenza andrà intensificandosi nel corso della guerra e subito dopo.
Facendo tesoro delle elaborazioni più recenti e avanzate del pensiero economico – in particolare la lezione di John Maynard Keynes – nell’immediato secondo dopoguerra viene alla luce quello che può a buon diritto essere considerato il pilastro teorico del Welfare State: il Rapporto Beveridge. In esso si espone l’articolazione di un sistema sociale in cui lo Stato viene ad essere elemento imprescindibile per il benessere materiale e immateriale dei cittadini. Nel successivo quarto di secolo i paesi dell’Europa occidentale – e, in parte, anche gli USA (soprattutto sotto la presidenza Johnson) – tentano di applicare la sostanza di quelle proposte, edificando economie miste – in cui la presenza dello Stato diviene cioè fattore di forza per l’intero sistema.
Ma negli anni ’70 le crisi petrolifere, precedute e aggravate dall’esplosione del sistema monetario mondiale (definito a Bretton Woods nel ’44), minano alle fondamenta questo difficile equilibrio. L’iperinflazione sembra rendere insostenibili volumi consistenti di spesa pubblica; piuttosto – è la vulgata dei neoliberisti che proprio in quel decennio vanno acquisendo rilevanza e potere – è dall’abbattimento di quella spesa che ci potrà attendere il rallentamento della dinamica dei prezzi. Questa visione finisce con l’affermarsi in buona parte dei paesi economicamente avanzati in un momento estremamente delicato per la storia delle relazioni industriali, per l’evoluzione dei processi tecnologici e per l’espansione dei mercati. Siamo in un periodo di accesa conflittualità fra capitale e lavoro, al culmine di una fase storica che ha visto crescere la quota del prodotto sociale distribuito a vantaggio dei salari. Il tentativo di compensare gli incrementi progressivi del costo del lavoro vede il capitale impegnato in una vasta opera di ristrutturazione che incrocia l’emergere di un nuovo paradigma tecnologico. E’ il crepuscolo dell’egemonia dell’elettro-meccanica e l’inizio dell’ascesa dell’elettronica e dell’informatica. I nuovi assetti tecnologici consentono alle imprese di risparmiare lavoro e ne impongono e agevolano, al contempo, l’apertura transnazionale. Il crollo delle economie socialiste farà venir meno anche gli ultimi ostacoli istituzionali al delinearsi della situazione più simile a quella che Marx definiva “mercato mondiale”.
In questo contesto, l’attacco allo stato sociale funziona come fattore di indebolimento ulteriore dei lavoratori e dello Stato medesimo. In fondo, sono stati questi due soggetti ad avere promosso, nel corso dei decenni precedenti, il contenimento del capitalismo entro limiti di sostenibilità sociale. L’ubriacatura liberista attraversa tutti gli anni ’90; in Europa Occidentale essa è sostenuta dalle stesse forze progressiste che, fino a qualche decennio prima, si erano impegnate a strutturare sistemi di welfare. La crisi che ha sconvolto il sistema economico mondiale è la conseguenza di politiche analoghe a quelle che, agli albori della rivoluzione industriale, portarono alla dissoluzione dei sistemi sociali preesistenti e a una momentanea anomia sociale di vasti gruppi di individui. In tempi recenti l’impoverimento degli strati più bassi della società ha determinato l’espansione dell’indebitamento privato. Su questa base si è innestato il folle gioco della speculazione finanziaria.
Oggi la situazione è per molti versi simile a quella post-1929. Non solo i sistemi economici vivono in una situazione di instabilità strutturale, ma le stesse soluzioni di politica economica prevalenti sembrano volersi limitare a “navigare a vista”. Al “keynesismo ad uso dei padroni”, affermatosi nelle settimane immediatamente successive ai tracolli delle grandi finanziarie americane, ha fatto seguito una richiesta di austerità sorda a qualsiasi esigenza sociale. Restando al nostro continente, mentre le piazze bruciano (letteralmente in molte capitali) i dirigenti della BCE impongono misure draconiane. Sembra di essere tornati al 1932, quando il governo tedesco presieduto dal cancelliere Bruning, volendo perseverare nel taglio dei sussidi per i disoccupati, decretò la sconfitta elettorale della coalizione che lo sosteneva. In quelle stesse elezioni il Partito Nazionalsocialista ottenne un grande successo e, di lì a pochi mesi, Adolf Hitler fu nominato Cancelliere.