Sorella acqua: giù le mani!

di Gaetano De Monte

«Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica»… si legge nel  titolo che apre l’articolo 15 del decreto legge n.135, approvato a fine 2009, il “decreto Ronchi”, il quale prevede l’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, gas, acqua e trasporti, in via ordinaria, attraverso gare ad evidenza pubblica; e che soprattutto impone agli enti pubblici di portare le loro quote di partecipazione sotto il 30% in tutte le società di gestione dei servizi idrici, aprendo cosi la strada della privatizzazione.
Sotto quella che era chiamata elegantemente “la liberalizzazione della gestione dei servizi idrici”, si nascondeva in realtà una delle più grandi rapine a carico dei contribuenti italiani. E un grande affare per pochi grandi gruppi finanziari italiani e stranieri. Alcuni già presenti nel business acqua ed altri che vi sarebbero potuti entrare. Quelli che sono attivi in settori correlati e quelli che cercano diversificazione sicure e redditizie. Tutti erano pronti a spartirsi le partecipazioni delle quotate da «redistribuire»: una torta che vale 2,3 miliardi. Tutti erano pronti a mettere le mani su un business colossale: attualmente in Italia la rete idrica è coperta da circa 110 gestori. Divisi tra i 91 Ato (ambito territoriale ottimale, creati nel 1994 dalla Legge Galli) esistenti, che corrispondono grosso modo ad altrettante provincie. Attualmente 64 gestori sono a totale capitale pubblico e servono oltre la metà della popolazione. Il resto è a capitale misto o privato.

Il decreto Ronchi, sonoramente respinto nelle consultazioni referendarie di ieri, avrebbe attribuito i compiti operativi connessi alla gestione del servizio totalmente nelle mani del privato che non avrebbe potuto avere una quota inferiore al 40% della società. Della serie: il pubblico, e cioè il comune, la provincia, la regione può rimanere nella gestione, ma è il privato che decide quanto o come investire. E il privato deve fare profitti. E i profitti, si sa, si fanno abbassando gli investimenti e alzando le tariffe. Con il decreto Ronchi cosi, sorella acqua, la quale “è molto utile e umile,preziosa e pura”, parafrasando Francesco d’Assisi, aveva cambiato status: non più bene pubblico, ma merce. Di «proprietà» ancora dello Stato, dopo una emendamento inserito all’ultimo minuto dal Pd, ma gestita da privati. Da ieri sera, però, Sorella Acqua torna Bene Comune. Anche se dal Nordest a Torino, da Milano a Roma, in Puglia e in Campania la corsa tra i più grandi gruppi industriali e finanziari per accaparrarsi la più importante e fondamentale delle risorse non è certo finita, visto che ormai già da qualche anno gli scenari economici italiani si muovono in questa direzione. A cominciare da Roma e da Acea, la società a capitale misto che gestisce i servizi idroelettrici nel Lazio, ma che si estende anche ad Umbria e a parte della Toscana, dove il “Signore delle Acque” è lui, Francesco Gaetano Caltagirone, il quasi settantenne costruttore- editore- banchiere- finanziere- assicuratore romano, che controlla già gran parte dei settori immobiliare, bancario, ed editoriale italiano. Caltagirone detiene cinque società quotate in Borsa, tra cui Cementir e Vianini,  ed è azionista di peso della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena. E, come se non bastasse, è vicepresidente delle Assicurazioni Generali. Proprio la costante crescita azionaria di Francesco Gaetano Caltagirone, fra l’altro editore del Messaggero e suocero di Pierferdinando Casini, all’interno di Acea – attualmente è il secondo socio dell’azienda municipalizzata romana dell’energia e dell’acqua, con un 13% di azioni, quota inferiore solo al Comune di Roma, che ne detiene ancora il 50% – ha lasciato intendere che l’acqua romana potrebbe rappresentare un termometro delle possibili tendenze per tutta la Penisola. Acea, insomma, più che un ente di gestione dei servizi idroelettrici si configura come una sorta di “Mediobanca romana” dove si intrecciano tutti i grandi giochi di potere. A lui invece, a Francesco Gaetano Caltagirone, “basta” puntare a diventare il Re delle Acque, nel Lazio e in tutta Italia.

Ne sa qualcosa Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia; il palazzinaro romano infatti non ha mai nascosto il suo interesse per l’Acquedotto Pugliese, una delle più grandi opere di ingegneria idraulica al mondo che con una rete di oltre 20.000 km di tubazioni, rifornisce di ottima acqua milioni di persone. In Puglia, la gestione dei servizi idrici e la loro più volte annunciata, ma mancata, ripubblicizzazione, rappresentano una pagina nera della Giunta Vendola, almeno fino ad ora. L’Aqp infatti attualmente è una società per azioni che gestisce il servizio idrico con un affidamento cosiddetto «in house» (il cui capitale è totalmente pubblico, detenuto dalla Regione). Una spa a capitale interamente pubblico, dunque, che resta comunque una società di diritto privato e che, come tale, risponde alle norme a garanzia dell’interesse dei privati e non all’interesse della collettività nel suo insieme. La spa è infatti, giova ricordarlo, una società finalizzata per legge al conseguimento del profitto (indipendentemente dalla natura dei suoi azionisti), mentre ai cittadini interessa che l’acqua ed i servizi idrici siano governati da un ente che garantisca gli interessi di tutti e non di pochi. E proprio i risultati del referendum di ieri ci parlano di questo desiderio e di questa volontà. E’ chiaro come il riconoscimento dell’acqua bene comune e la necessità di una gestione pubblica e partecipata possano essere le uniche garanzie perchè i cittadini pugliesi possano godere di efficienza nella gestione dei servizi idrici e del funzionamento reale del ciclo di depurazione. Ed è persino ovvio ribadire che tali esigenze non solo non debbono essere in contrasto con una gestione effettuata da un ente di diritto pubblico, ma questo deve rimanere l’unico che per sua natura giuridica possa garantire realmente un governo pubblico dell’acqua e dei servizi idrici. Dalle parti di via Capruzzi sembrerebbero averlo capito solo a pochi giorni dalla consultazione referendaria: il presidente Vendola è corso infatti già ai ripari : il disegno di legge sulla ripubblicizzazione di Acquedotto Pugliese proprio in questi giorni sta proseguendo nel suo iter di approvazione nelle Commissioni consiliari competenti ed approderà a breve, per la sua approvazione definitiva, anche in Consiglio regionale. L’osservatore attento ricorderà però la lunga querelle che scoppiò tra Nichi e Riccardo Petrella,  presidente dell’Acquedotto pugliese, che portò alle dimissioni di quest’ultimo dal vertice del servizio idrico pugliese e alla rottura della condivisione del percorso di ripubblicizzazione, avviato nel 2005, proprio con la nomina da parte della Regione del prof. Petrella alla Presidenza dell’Aqp e con le dichiarazioni rese in più occasioni dal Presidente Vendola o altri rappresentanti regionali circa la volontà della Giunta regionale di creare le condizioni politiche per far ritornare pubblico l’Acquedotto. Nel contesto italiano, e nello specifico in quello pugliese, la ripubblicizzazione dell’acqua significava, e significa ancora oggi, una serie di scelte precise sul piano politico, sociale, istituzionale, economico, gestionale.

Ri-pubblicizzare significa anzitutto, che non solo la proprietà delle infrastrutture e delle reti deve essere pubblica ma lo deve essere anche la gestione dei servizi idrici (con i quali si deve intendere acqua potabile, servizi igienico-sanitari, depurazione delle acque reflue, l’acqua per la sicurezza dell’esistenza collettiva: per l’agricoltura, per l’energia…). Alla base di questa scelta politica sta il principio del riconoscimento dell’acqua come bene comune e non come merce (fosse anche differente dalle altre merci). Pertanto, se la gestione è stata affidata ad un soggetto di natura giuridica privata, quale una Società per azioni (S.p.A.), come è il caso dell’Acquedotto pugliese, ripubblicizzare implica invece dare la gestione dell’acqua ad un soggetto di natura giuridica pubblica.
Ripubblicizzare implica lo scollamento progressivo del finanziamento del servizio idrico dai mercati di capitale nazionale ed internazionale. Sulla gestione dell’acqua pugliese pesano invece i numerosi prestiti a cui è ricorsa l’Aqp, perché chi finanzia gli investimenti può condizionare la linea politica dell’azienda. Attualmente, i comuni, le province, le regioni non hanno più la possibilità di ricorrere a meccanismi di finanziamento pubblico per bisogni non copribili grazie ai trasferimenti di risorse da parte dello Stato centrale. L’Acquedotto pugliese avrebbe potuto essere il luogo d’innovazione di una “finanza pubblica” per “l’acqua comune”, ed invece la Puglia sembrerebbe essersi arresa alla tendenza oggi prevalente in favore di un capitalismo municipale ed interregionale finanziario multiutilities. Come non ricordare la scelta dell’adesione infatti di AQP a Federutility (Federgasacqua), la federazione di categoria, la quale è stata all’avanguardia della spinta a favore della liberalizzazione e della privatizzazione dei servizi pubblici locali. Oggi l’Acquedotto pugliese è tra i principali contribuenti finanziari della Federutility. L’acqua, insomma, in pericolo anche nella Puglia progressista di Nichi Vendola, almeno fino a quando non venga approvato il tanto agognato Decreto da parte del Consiglio regionale.
La spinta del Governo ad aziendalizzare l’acqua in Italia, arriva in un momento in cui gli impatti sociali, politici ed economici della scarsità di questa risorsa stanno rapidamente diventando una forza destabilizzante, con i conflitti legati all’utilizzo dell’acqua che spuntano sempre più rapidamente nel mondo. Nelle analisi geopolitiche, nel prossimo futuro la “guerra dell’acqua” è destinata a condizionare, sostituendo quella del petrolio, la nostra storia. Ancora una volta questo problema si fa drammaticamente evidente nello scacchiere mediorientale, una delle aree più aride del pianeta nonostante la presenza di quattro grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Giordano e Nilo, che però non sono sufficienti a dissetare questa immensa piana desertica. Pensiamo alle continue tensioni provocate dal rifiuto da parte di Israele di restituire le alture del Golan, conquistate militarmente durante il conflitto siriano libanese del 1967, e mai riconosciute dalla Comunità internazionale – diniego motivato, indipendentemente da opportunità strategiche, dal fatto che almeno un terzo delle risorse idriche dello stato ebraico passa da questo altipiano.
In Italia la questione dell’acqua, lungi dal provocare una guerra tra enti locali, almeno per il momento, è facilmente riassumibile dalla formula “tanti che perdono, pochi che ci guadagnano”; l’Italia è uno dei territori del pianeta più ricchi d’acqua, spesso anche di grande pregio organolettico. E gli stessi acquedotti italiani, anche grazie a una normativa molto restrittiva, sono riusciti a raggiungere negli anni l’obiettivo di fornire acqua potabile di ottima, a volte eccellente qualità, alle nostre case.
Nonostante questo, siamo i più grandi consumatori al mondo di acqua in bottiglia. Un vero affare per un prodotto che scende spontaneamente dal cielo, passa sulla terra e deve essere semplicemente imbottigliato e… pubblicizzato. E proprio dagli investimenti pubblicitari che non hanno uguali per nessun’altra bevanda, è facile capire come i gruppi che controllano i tre quarti della produzione totale italiana San Pellegrino/Nestlé, San Benedetto Italaquae/Danone, Uliveto/Rocchetta, e San Gemini, costituiscano una lobby (Mineracqua, la Confindustria delle acque), siano in grado di pilotare le campagne pubblicitarie e “convincere” il legislatore a tutelare più il business che la salute. Pensiamo a cosa successe nel 2003, dopo che una serie di inchieste, di cui era titolare il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, riscontrarono in molte acque minerali la presenza di idrocarburi al benzene in quantità 10 volte superiore alla media; il ministro della Sanità di allora, Girolamo Sirchia, per salvare il business dell’acqua minerale, varò un decreto che innalzava la soglia di tolleranza per molti degli inquinanti trovati nelle minerali (tra i quali tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, idrocarburi) facendo rientrare nella legalità, come per magia, molte industrie dell’acqua imbottigliata. Pochi a danno di molti quindi ci guadagnano: i proprietari delle acque minerali, che pagano cifre irrisorie per le concessioni di prelievo delle acque e fanno guadagni elevatissimi; i grandi business dell’industria alimentare, le grandi società di autotrasporto, i produttori di plastica, oltre che le principali agenzie di pubblicità.
E molti ci perdono naturalmente: consumatori, piccoli esercenti, l’ambiente. Oltre che la rete idrica naturalmente. Il business delle acque minerali è infatti il principale responsabile del “buco nell’acqua”, perché agendo come delle lobby potentissime sul potere politico, i grandi gruppi del settore impediscono di fatto che si investa per migliorare e promuovere l’acqua degli acquedotti, comunque più controllata e spesso qualitativamente migliore delle acque in bottiglia. In questi anni poi, le grandi Aziende Municipalizzate, ormai tutte quotate in Borsa, sono viste solo come strumento per fare cassa, e non c’è alcun progetto per valorizzare il servizio idrico pubblico, tutelando fiumi e sorgenti, risparmiando acqua per gli usi non potabili.
Dissetarsi, curarsi, respirare aria pulita, sono bisogni fondamentali degli esseri umani che pertanto devono essere esclusi dalla logica del profitto e del mercato: è questa la lezione che il popolo referendario consegna ad un governo, che invece, per “salvarsi” dalla sua crisi, privatizza aria, acqua, terra, energia e conoscenza, sferrando cosi un attacco alla democrazia e ai diritti senza precedenti. Un governo che da stasera non potrà non fare i conti con il dato politico che sembrerebbe uscire fuori dalla consultazione referendaria di ieri, è che cioè, forte è una spinta dal basso, di cittadinanza, di popolo, potremmo anche dire, che vuole costruire invece, un nuovo modello di sviluppo, capace di riconoscere e difendere il Comune, ciò che appartiene a tutti noi, e declinarlo in chiave di riconoscimento di nuovi diritti. Le elezioni di Napoli e Milano, il referendum per l’acqua come Bene comune e contro il nucleare, le battaglie dello scorso Autunno di centinaia di migliaia di persone per l’istruzione pubblica, per il lavoro e contro la precarietà, ci parlano proprio di questo.