“Università e politica: il cambiamento parte dal basso”

Un Tarantino responsabile organizzazione di una delle più grandi associazioni studentesche d’Italia… sembrava impensabile solo fino a qualche anno fa, quando l’Università in riva allo Jonio sembrava un miraggio. E anche ora che questa rischia seriamente il ridimensionamento a causa dei tagli imposti dal governo, si tratta comunque di un fatto straordinario. Soprattutto se si tiene conto che Claudio Siciliano, 27 anni da qualche giorno, a Taranto si è laureato (triennale in Informatica e Comunicazione digitale) prima di emigrare alla volta di Bari perché (guarda un po’…) in città mancano i corsi di laurea specialistica. Fra i fondatori, nel 2005, del coordinamento cittadino dell’Unione degli Universitari (dal 2009 Link), è stato eletto dall’Assemblea Nazionale di Link, tenutasi il 21 e 22 maggio,  responsabile organizzazione del sindacato studentesco.  Di questo e di altro abbiamo parlato in questa lunga intervista…

Nel 2005, assieme ad altri universitari di Taranto, fondi l’UDU (Unione degli Universitari) di Taranto, il primo gruppo studentesco operante nella realtà jonica ad avere come riferimento un’organizzazione nazionale. Da che tipo di esigenza nacque quell’iniziativa e che bilancio tiri dell’attività di questi 6 anni?

L’esigenza di allora nacque da una consapevolezza che ci pervade ancora oggi; il non poter affrontare determinati problemi con un raggio d’azione locale, campanilista e qualunquista. Qualità della didattica, servizi, politiche di tutela per gli studenti, sono solo alcuni esempi di come un disagio che ha ripercussioni sul territorio (nel nostro caso quello jonico) abbia origini lontane.
L’allora UDU ci permetteva di fare rete con realtà universitarie che vivevano situazioni sicuramente diverse ma che, attraverso lo scambio di conoscenza ed il mutualismo, venivano assolutamente incontro alle nostre esigenze. Ci permetteva di mettere in discussione a livello nazionale i meccanismi di accesso all’università, di urlare la necessità di uno Statuto dei Diritti e dei Doveri degli studenti, di rivendicare la copertura completa delle borse di studio; insomma, ci permetteva di mettere in discussione l’esistente, che si intendesse a livello locale o meno.
E’ stato di fondamentale importanza avviare un rapporto di fitta collaborazione con l’ex UDU-Bari (ora LINK) con il quale condividevamo un determinato senso di pubblico, il ruolo dell’università, un’idea di società diversa da quella in cui vivevamo e viviamo tutt’ora.
Penso che al tempo abbiamo avuto il grande merito di andare oltre i preconcetti, oltre il campanilismo e l’opportunismo che troppo spesso dilaga a Taranto ed i risultati sono sotto gli occhi di tanti studenti che hanno visto cambiare in meglio la propria sede, la qualità dei servizi interni ed esterni e che finalmente iniziavano a sentirsi parte di un sistema che li tutelava e li metteva al proprio centro.
In questi anni è stato questo il nostro impegno; dar dignità e valore agli studenti tarantini, provare a fargli comprendere il loro ruolo nella società, portare nell’università tarantina, concepita come una mera prosecuzione della scuola superiore, temi che venivano considerati tabù, come il lavoro, il precariato, l’ambiente, il valore del confronto. Il nostro impegno è stato, prima di tutto, creare una coscienza critica, la base per ogni possibile miglioramento delle proprie condizioni materiali.

Fino al 2009 sei stato Consigliere di corso di laurea ad Informatica e Comunicazione Digitale, Consigliere di facoltà a Scienze matematiche, fisiche e naturali e, fra le altre cose, membro della Consulta Comunale degli Universitari. Da questa tua esperienza che idea ti sei fatto dell’Università a Taranto?

L’Università a Taranto è frutto delle tante contraddizioni e deviazioni del nostro sistema (universitario e non) ed è probabilmente anche questo che la mette in crisi nonostante il suo enorme potenziale. Dico potenziale perché questo territorio ha davvero bisogno di uno scatto in avanti, di formare e puntare su eccellenze che riescano ad uscire dalla morsa d’omologazione culturale e proporre una reale alternativa. Potenziale perché si potrebbe dare maggior peso a quei corsi di laurea peculiari per il territorio (come quelli ambientali e culturali, ad esempio), si potrebbe rafforzare l’interazione tra la città e le conoscenze che si acquisiscono durante il percorso formativo. Ed invece, a causa di politiche governative che tagliano senza criterio e della superficialità di molti responsabili dell’amministrazione locale, si rischia non solo di non avviare un percorso virtuoso per rilanciare l’università (compresa del ruolo della ricerca), ma addirittura di perdere quei corsi.
Naturalmente il “caso Taranto” è determinato da diversi fattori culturali, sociali ed economici. L’università tarantina ha, da un lato, il macigno di politiche nazionali che la penalizzano fortemente, da un altro, una gestione amministrativa che non investe e non punta seriamente sul suo sviluppo e, come se non bastasse, la stessa rappresentanza studentesca (che dovrebbe stimolare e fare da apripista rispetto ad un’inversione di tendenza) spesso è espressione delle logiche che generano il problema, il che ne determina inevitabilmente la mancata risoluzione.

Link è uno dei gruppi studenteschi più grandi e importanti del nostro paese. Nasce nel 2009 con una scissione “da sinistra” dall’UDU, in nome dei principi (cito testualmente dalla vostra presentazione) di “autonomia, radicamento e vertenzialità”. A proposito di autonomia… qual è il vostro rapporto coi partiti e coi sindacati (soprattutto la CGIL, di cui l’UDU è stata a lungo considerata la sezione giovanile)?

Innanzitutto un po’ di chiarezza. La scelta che ci ha portato ad uscire dal percorso nazionale dell’UDU e realizzarne uno più grande, LINK – Coordinamento Universitario, è stata la perdita d’identità del sindacato studentesco di cui facevamo parte. I gruppi dirigenti dell’UDU Nazionale hanno portato avanti un percorso che ha determinato la rottura con il movimento studentesco, adornato da un velo di sospetto rispetto alla linea politica (viziata dalla dipendenza economica dalla CGIL) ed un annullamento della democrazia interna all’associazione. Come realtà territoriali non potevamo non prendere atto di una distanza politica e organizzativa, nonché culturale con quel che era, ed è, l’UDU nazionale.
La natura di LINK, quindi, rifiuta in modo netto tutte le logiche che ci hanno spinto ad uscire da quel percorso rivendicando autonomia e indipendenza politica ed economica.
Autonomia, però, non significa autoreferenzialità ed è per questo che scegliamo di promuovere rapporti dialettici e di confronto sui contenuti sia con i partiti come organizzazioni politiche sia con i loro rappresentanti nelle istituzioni. Per quanto riguarda il sindacato abbiamo avuto confronto serio ed incalzante sui contenuti e, ribadendo la nostra indipendenza politica ed economica (che ci è stata riconosciuta), abbiamo avviato un rapporto politico nella battaglia comune contro l’attacco ai diritti dei lavoratori e lo smantellamento dello stato sociale. Un rapporto di sincero confronto tra organizzazioni che ci ha permesso anche di criticare laddove ritenevamo fosse giusto (per esempio, in merito alla tardiva convocazione dello sciopero, che non ha intercettato le istanze poste dal movimento dello scorso autunno, o sul suo ritardo sul tema della precarietà).

Sempre nella vostra presentazione si fa riferimento alla necessità di superare “gli steccati tradizionali tra sindacati studenteschi, coordinamenti di collettivi e soggetti di rappresentanza”. Io sono stato personalmente testimone di questi steccati, che fino a qualche anno fa erano davvero molto alti; siete riusciti nell’impresa di scavalcarli?

Penso che la sfida che abbiamo avuto il coraggio di lanciare sia stata vinta. Riuscire a fare rete fra realtà territoriali così eterogenee fra loro, con una storia così diversa l’una dall’altra e riuscire a trovare una sintesi, un percorso comune attraverso un lavoro di confronto, analisi, con un’educazione alla discussione rara nel nostro paese, sia qualcosa di davvero importante.
Siamo riusciti nell’impresa di creare una rete quanto più orizzontale possibile nella democrazia interna e meno verticale possibile nei livelli di coordinamento. La piramide non è stata semplicemente rovesciata, è stata distrutta.

Uno dei dilemmi che da sempre affligge i gruppi studenteschi è il potere reale che gli studenti hanno all’interno degli organi di governo dell’Università. Quali sono i margini di manovra dentro i Consigli – e soprattutto quali saranno ora che verrà attuata la riforma della governance degli Atenei, che sembra spingere verso una centralizzazione fortissima del potere nelle mani del Rettore?

Io credo che il discorso sia da affrontare su due livelli differenti. Il primo è quello della partecipazione studentesca, l’altro è quello dell’effettiva agibilità all’interno degli organi decisionali.
Una sfida che proviamo a raccogliere da tempo (facendo anche i conti con un quotidiano sempre più frammentato, nei tempi e nei modi) è quella di diminuire sempre più la distanza fra rappresentanti e rappresentati, aumentando la partecipazione, l’informazione, utilizzando sempre più momenti e luoghi di aggregazione, confronto, analisi ed essere uno strumento anche al servizio del movimento studentesco. Senza minare il concetto di delega in favore di quello di rappresentante effettivo, il nostro agire non ha senso.
Per quanto riguarda il continuo restringersi dell’agibilità studentesca adesso la battaglia si gioca sulla modifica degli statuti delle università. Dovremo non solo conquistare maggiori spazi di rappresentanza all’interno degli organi ma anche nuove pratiche di partecipazione e democrazia capaci di ottenere un effetto concreto sulle scelte dei nostri atenei (penso all’ipotesi question time, al referendum studentesco, all’iniziativa di proposta studentesca, al bilancio partecipativo, ecc…)

Visto che abbiamo introdotto l’argomento, andiamo fino in fondo. Di “riforme dell’università” se ne sono fatte tre o quattro negli ultimi dodici anni: dalla Zecchino alla Gelmini ogni governo ha ritenuto di mettere le mani sul sistema della formazione. Eppure gli studenti, i ricercatori, talvolta anche i docenti periodicamente sono in piazza. C’è qualcosa che non va?

Non potrebbe essere diversamente considerando la costante di tutte queste riforme. Prima di tutto non c’è stato mai un reale percorso partecipativo di tutta la comunità accademica (studenti in primis) , ma, anzi, si è sempre fatto riferimento ad interessi (soprattutto economici) che hanno, di fatto, svilito il senso dell’università pubblica. Non è possibile non considerare anche il continuo sotto-finanziamento della formazione e della ricerca, e la ricerca di un’insensata e superficiale emulazione di alcuni modelli europei che, nel contesto italiano, hanno dimostrato tutto il loro fallimento.

Quest’inverno a un certo punto è sembrato possibile un corto circuito positivo fra movimenti sociali e politica. Mi riferisco naturalmente a quel memorabile 14 dicembre, quando c’è mancato poco che il governo cadesse. Subito dopo ciascuno è tornato alle sue basi: chi all’università, chi in fabbrica, chi nelle sedi di partito… Siamo destinati a “marciare divisi per colpire uniti” o emergerà prima o poi un’opposizione capace di tradurre in politiche concrete le istanze dei movimenti?

Questo autunno abbiamo avuto la capacità di porre al centro di un dibattito politico fossilizzato su tutto tranne che sugli interessi dei cittadini, il tema generazionale, di una generazione precaria, dove per precariato non si intendeva solo una condizione lavorativa ma esistenziale. Siamo riusciti a riempire così tanto quelle piazze non meramente di persone, ma di contenuti che persino i nostri politici, che hanno da fin troppo tempo perso ogni contatto con la realtà, non hanno potuto fare a meno di accorgersene. Prima delle mobilitazioni sia un pezzo della maggioranza che una buona parte dell’opposizione era favorevole (più o meno apertamente) alla riforma dell’università. Nonostante per alcuni sia stata una scelta, a seconda dei casi, più o meno strumentale, siamo riusciti a creare un fronte che è riuscito in quel che da anni era addirittura impensabile fare: rallentare l’approvazione di un progetto dell’esecutivo. Questo come non ci è bastato, ovviamente non ci basterà. Le istanze sociali che, urlando e facendo fronte comune con i dottorandi, con i ricercatori, con i lavoratori, abbiamo fatto riecheggiare nei ”palazzi del potere” potranno essere raccolte dalla politica istituzionale solo continuando su questa strada; continuando questo percorso partecipativo dal basso, che generi consenso, che assuma sempre più peso e determini effettivamente i cambi di rotta di cui abbiamo bisogno.

A proposito di proposta… voi parlate di “riforma dell’università dal basso”, ma concretamente di che si tratta? Come dovrebbe essere l’università “a misura di studente”?

L’AltraRiforma parte innanzitutto dalla consapevolezza che non ci basta più dire di NO ma che sia arrivato il momento di lavorare su una reale e concreta alternativa. E’ un percorso che ha visto la partecipazione degli studenti di tutti gli atenei dove LINK – Coordinamento Universitario è presente, di realtà universitarie con le quali collaboriamo o che hanno riconosciuto la validità di questo progetto, dell’ADI, della rete 29 Aprile, dell’FLC CGIL ed ha ampliato la sua analisi a seguito della possibilità di modificarla online attraverso un wiki. Il risultato di un percorso iniziato nel 2009 ed ancora in fase di evoluzione non aspira solo ad essere il “manifesto dell’Università Pubblica” ma ad ogni suo contenuto è possibile avviare una vertenza immediata dentro le facoltà; è possibile concretizzare quella messa in discussione dell’esistente e la sua relativa alternativa. L’università a misura di studente è un’università capace di soddisfare i bisogni reali degli studenti, che lo tuteli e gli trasferisca conoscenza di qualità, realmente meritocratica, che favorisca la partecipazione, il confronto ed il dibattito studentesco, aperta al mondo al di fuori delle proprie mura, permeabile ai temi della società, dove poter formare una propria coscienza critica. Un’università dove il “diritto allo studio” non è solo un motto composto da tre parole ma si concretizza nella copertura totale delle borse di studio, in un sistema integrato di agevolazioni economiche, che ponga realmente al centro lo studente.

Torniamo alla nostra Taranto. C’è una “questione giovanile” che pesa sul futuro di questa città come un macigno. Intanto si avvicinano le elezioni, ma mentre in altre città d’Italia si respira aria di rinnovamento, si discute di progetti e si cerca soprattutto di dare risposte al dramma dell’emigrazione giovanile (ne parlano con insistenza sia De Magistris che Pisapia), qui siamo alle manovre neanche di Palazzo, ma di retrobottega. Secondo te si può rovesciare questo teatrino? E come?

Quando vedo Taranto vedo una città senza prospettive, senza un progetto, senza un’identità (o quantomeno non un’identità che sia stata scelta consapevolmente). Noto una classe politica incapace di leggere la fase e di fare un’analisi reale, troppo impegnata a mantenere lo status quo attraverso tutti quei meccanismi che oggi creano sfiducia proprio nei confronti della politica istituzionale. Ma il problema non sono solo i politici distratti, incapaci, che non hanno gli strumenti, o magari quelli in gamba che però sono inseriti in un sistema che non consente loro di svolgere il proprio lavoro al meglio; il vero problema è il “popolo”. Un popolo che ha rinunciato da tempo alla sua funzione di controllore e al suo ruolo di portatore d’esigenze; è un popolo sfiduciato che più o meno consapevolmente ha deciso che impegnarsi in una certa direzione non conveniva poi così tanto. E la discriminante è il “tempo perso” per fuggire una volta terminati li studi, o l’arrendersi al “tanto sono tutti uguali”.
“La politica è lo specchio della società” sembra una frase scritta pensando alla nostra città. Il vuoto dei partiti è determinato da un netto scollamento dalla realtà che la politica “sociale” non riesce a colmare. I movimenti nati negli ultimi anni spesso non sono riusciti ad andare oltre ai personalismi, oltre gli interessi di qualcuno, oltre un’analisi “di pancia” o, più semplicemente, non sono riusciti a creare realmente un ampio fronte d’opposizione sociale.
Le grandi speranze che si stanno raccogliendo intorno ad alcuni personaggi, quali De Magistris e Pisapia, non sono diverse da quelle che hanno spinto Stefàno alla guida della città qualche anno fa; la grande sfida è creare una sinergia fra politica sociale ed istituzionale che sia solida, che riesca a minare le logiche di potere che oggi reggono le amministrazioni e questo non passa dal personaggio di spicco, non passa dal partito che vuol ritornare a chiamarsi tale; passa prima di tutto dalla creazione di una coscienza collettiva che assuma peso all’interno della società.
Solo grazie a quest’ultima la politica sociale può riuscire a raccogliere istanze reali e lanciarsi nel tentativo di farle diventare proprie di quella istituzionale. In questo modo, attraverso la sua funzione di controllo e in virtù del suo peso sociale, man mano “depurerà” le istituzioni da tutti gli incompetenti e i rappresentanti di interessi terzi. Senza una reale politica sociale, la politica istituzionale si svuota e, nel migliore dei casi, diventa autoreferenziale. La questione giovanile, come tutte le questioni calde tarantine, ha bisogno di un’analisi molto profonda, generale e lungimirante per essere affrontata e finché non si creeranno le condizioni socio-culturali necessarie ad avviare un percorso di reale partecipazione democratica, le rivendicazioni saranno sempre limitate, vuote, corporative, specchio dell’agire all’interno delle istituzioni.