Giovani e lavoro a Taranto: due mari, quante prospettive?

di Luca Delton

Per riflettere sul rapporto tra i giovani e il lavoro è necessario sgombrare il campo da un primo equivoco di carattere terminologico, che non vale solo per il territorio tarantino, ma si è fatto elemento nazionale. La definizione corrente di “giovane”, che si può leggere sui vocabolari della lingua italiana, ne parla come di un “compreso tra l’età dell’adolescenza e quella della maturità”.
Questo ci aiuta a comprendere il grande equivoco generato ampliando il tempo della giovinezza ben oltre il raggiungimento dell’età matura.
Il clamoroso ritardo nell’accesso al mondo del lavoro, la flessibilità che si fa precarietà costante, le difficoltà nel raggiungimento di vite autonome hanno comportato questa odiosa sfida alle leggi biologiche.
Nel nostro Paese sembra che ci si possa sentire giovani fino a cinquant’anni. Questo ci rende contenti, ma non è naturale. Il dubbio è che questa allucinazione collettiva non nasca tanto da una più lunga aspettativa di vita, ma dalla necessità di placare le multiformi paure di chi non riesce a costruire un’esistenza di dignità attraverso l’elemento principale, che è ancora oggi il lavoro.
L’abuso del termine “giovani” e l’accostamento di questi al lavoro assume contorni complessi nei territori più difficili, come Taranto e la sua provincia. Per cercare di capire quale sia la situazione e provare a pensare a possibili prospettive non si può non partire da una breve analisi delle cifre.
Chi crede che a Taranto ci siano bassi tassi di occupazione giovanile si sbaglia. I dati sono sorprendenti e, tuttavia, possono stimolare riflessioni profonde e di progettualità nel lungo periodo. Nel 2008, quando la crisi economica muoveva i primi passi, il tasso di occupazione maschile, nella fascia d’età 25-34 anni, era dell’ 82% e del 91,9% nella fascia d’età 35-44 anni. Sono cifre superiori alla media nazionale. Evidente la differenza dei tassi di occupazione femminile, che, per le stesse fasce d’età, erano del 39,5% e del 34,8%.
Le previsioni sul tasso di disoccupazione in provincia di Taranto, che viaggiava intorno al 10-11%, erano già state ritoccate in ragione della “bolla dei mari del sud”, come ci dicevano Marco Paolini e i Mercanti di liquore nello spettacolo “Miserabili – io e Margaret Thatcher”, in una fredda sera di novembre 2009 in anteprima nazionale dal porto di Taranto. Si prevedeva un tasso di disoccupazione del 14,5% nel 2012. Il 2012, fine del mondo permettendo, ci dirà come Taranto e la sua provincia saranno uscite da questi anni.
I dati ci riportano una realtà occupazionale giovanile non così disastrata come si potrebbe pensare, ma sono influenzati dalle specificità del territorio. La presenza industriale è condizionante anche del mercato del lavoro. All’inizio del ventunesimo secolo vi è stato un significativo ricambio generazionale all’interno dello stabilimento Ilva. Spesso i figli sono subentrati ai padri nel ciclo produttivo. Questo aiuta a spiegare la siderale e preoccupante distanza tra l’occupazione maschile e quella femminile. Le donne non fanno l’operaio.
Il lavoro, però, non è fatto solo di industria. La diversificazione dei comparti è ricchezza, fantasia, diversità di composizione del gruppo sociale. Qui cominciano le note dolenti, che si possono fotografare con un dato numerico. Nei settori dei servizi e dell’agricoltura, in provincia di Taranto, il precariato e il lavoro nero sono presenti tre volte più che nell’industria (15% sul totale dei contratti), dove è quasi del tutto assente nonostante il ricambio generazionale.
La prima considerazione che generano queste poche cifre è che, a parte il comparto del lavoro pubblico, si fa fatica se non si lavora nell’industria. Il motto “se non è zuppa è pan bagnato” si traduce nella vox populi più comune per le strade di Taranto: “se non è Marina Militare è Ilva”.
Ho cominciato a capire che, nella mia città, stava cambiando qualcosa quando ho percepito il cambiamento nella concezione che sia aveva degli operai del siderurgico. Da uomini che conducevano vite faticose a privilegiati che, nonostante tutto, possono organizzare esistenze dignitose. I miei coetanei erano protagonisti di questo mutamento culturale, che mi generava non pochi dubbi. Avevamo la stessa età ed eravamo amici e compagni di banco dei ragazzi che, in fabbrica, subentravano ai padri.
Cosa determinava questo mutamento? Qualche anno più tardi ho compreso che, in parte, può essere stata la naturale conseguenza determinata dai tanti ragazzi alle prese con contratti a tempo determinato o precari che si trascinano molto oltre il dovuto. Si è fatto regola un sistema che non premia chi ha scelto, magari da figlio di operaio e con enormi sacrifici economici, di proseguire gli studi. Questo ha creato una frattura ancora più profonda tra chi vive di grande industria e chi, invece, ne è esterno.
Una ricerca, nata da un’idea della Camera del Lavoro di Taranto tre anni fa, evidenziava un dato critico più delle cifre. Al lavoro si accede attraverso i canali di sempre, quelli che rendono un territorio preda del ricatto: la raccomandazione, le amicizie giuste. Fin qui nulla di nuovo o esclusivamente tarantino. Questa degenerazione si mischia alla difficoltà, recente e molto tarantina, di un generale deprezzamento del lavoro, in particolare quello intellettuale.
La concezione del lavoro, specie se giovanile, è oggi umiliante e fondata su un’idea schiavistica dei rapporti sociali.
A Taranto si fatica a investire sulle persone giovani e capaci. In questo modo si alimenta il mito della città matrigna, che presta i suoi neuroni più giovani e attivi ad altri territori.
La città pare bloccata nei suoi movimenti sociali. Operai sono i figli di operai, professionisti i figli dei professionisti. Muri di gomma respingono chi prova a salire su un ascensore sociale che non prevede fermate ai piani più alti. Se non si sale in ascensore, l’alternativa è salire sui treni.
I treni da Taranto al nord, però, stanno subendo drastici tagli. Sarà un segno premonitore? Che vogliano farci capire che possiamo provare a non avere più necessità dei treni per il nord?
Mentre cerchiamo la risposta a questa sarcastica domanda, possiamo provare a squarciare il buio con alcune proposte concrete, anche prendendo spunto dalle esperienze di altri territori.
Occorre una spinta verso l’abbattimento del nepotismo nel mondo delle professioni. A Verona, ad esempio, l’Associazione Nazionale Praticanti e Avvocati ha concluso un accordo che ripropone l’applicazione dell’art. 26 del codice deontologico, che prevede la retribuzione dei praticanti in ragione dell’apporto prestato. L’accordo prevede anche norme più rigide per evitare il fenomeno della pratica fittizia.
Accordi simili permettono di premiare chi intende realmente svolgere una professione ponendo un argine alla selezione per censo o per famiglia, che pare essere l’unico criterio possibile. Magari potremmo perdere qualche cervello in meno.
Nel campo della formazione professionale, la Provincia di Taranto, con il concorso delle parti sociali, si è dotata di un Piano per la Formazione Professionale 2011 che ha una ratio precisa e investe su settori determinati, quali ambiente e turismo. A Bari, realtà geograficamente vicina, il Comune ha investito fondi per incentivare le aziende a tramutare gli stage, successivi a un percorso formativo, in contratti di lavoro stabili. Non sarà un’operazione risolutiva, ma potrebbe essere un piccolo segnale di inversione di tendenza.
Si potrebbe, inoltre, investire su una produzione culturale permanente, che dovrebbe partire dal riconoscimento degli spazi fisici nei quali i giovani e le associazioni devono lavorare. A Torino le OGR (Officine Grandi Riparazioni) erano officine dismesse dalle Ferrovie dello Stato. Oggi sono spazi in cui giovani producono arte, musica, spettacoli e hanno trovato occupazione. Investire in cultura vuol dire investire in occupazione di qualità e spesso giovanile e recuperare spazi alla socialità urbana.
Si trattava e si tratta di provare, con poche e specifiche azioni, a creare le condizioni per dare attuazione a quell’affascinante ed equa previsione costituzionale in base alla quale bisogna rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Siamo ancora in tempo per tentare di dare attuazione all’art. 3 della Costituzione della Repubblica.
Rino Gaetano diceva che il fratello era figlio unico, perché non aveva mai “viaggiato in seconda classe sul rapido Taranto-Ancona”. Nonostante tutto, possiamo ancora provare a rimanere figli unici e non viaggiare più su quei treni per necessità.