L’8 per il 18: la nuova campagna referendiaria

di Remo Pezzuto

La modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e l’art.8 della dl. 138/2011 si inseriscono in una linea di politica del diritto che è stata portata avanti dai partiti di centro-destra nelle fasi in cui è stata al governo del paese. Ad onor del vero, la modica dell’art. 18 dello Statuto, vede in questo caso, anche il consenso del principale partito del centro-sinistra, da cui parte nel lontano 1997 , con il “Pacchetto Treu”, uno tra i primi attacchi della politica “liberale” al mercato del lavoro con l’introduzione del concetto di “flessibilità” nella giurisdizione italiana. Tuttavia, il momento più significativo di questa linea di politica del diritto, emerge nel d.lgs 276/2003 (Legge Biagi), che ha condotto ad una inedita frammentazione del mercato del lavoro, all’abrogazione della legge che regolava l’insidiosa prassi delle dimissioni in bianco, della successiva modifica normativa sul contratto a tempo determinato, poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale; e, infine, nell’abbassamento della soglia di sicurezza relativa agli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Si è assistito, nel giro di pochi anni, ad una martellante attività parlamentare, volta per un verso ad affermare il “primato dell’impresa” e la conseguente marginalizzazione del “lavoro”, sempre più considerato come mero fattore della produzione; per altro verso, a erodere il ruolo della giurisdizione, ritenuto il principale ostacolo al libero dispiegarsi delle dinamiche economiche-finanziarie.

Questa offensiva di stampo regressivo, da un lato ha trovato infatti, un robusto complemento nelle altrettanto profonde modificazioni delle relazioni sindacali, volte a una drastica riduzione del pluralismo e all’emarginazione delle organizzazioni tuttora votate a esercitare un ruolo conflittuale: modificazioni che hanno preso avvio con gli accordi separati del 2009 e che si sono poi tradotte, in termini implosivi, negli accordi relativi agli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori. Ma da sempre, principale obiettivo, di questa politica, concorde con quanto richiesto dagli industriali, è stato disporre del lavoratore, come merce, da poter assumere e licenziare a proprio piacimento. Il Governo Berlusconi, sin dal suo primo insediamento, aveva tentato di aprire il dibattito in parlamento sull’abolizione dell’art. 18 dello Stauto, a cui si rispose nel 2003 con il Referendum sull’applicazione di questo articolo anche alle ditte con meno di 15 dipendenti, ma non si raggiunse il quorum. Nuovamente, con la L. 183/2010 (cd. Collegato Lavoro) si è tentato di eludere la forza deterrente contro i licenziamenti senza giusta causa, scampata grazie all’intervento illuminato del Presidente della Repubblica, che aveva sottolineato la problematica, rinviando alle camere il testo del disegno di legge. Tuttavia con l’art 8 della finanziaria di Agosto del 2011, le aziende potranno derogare a piacimento dai contratti nazionali. Si opera così, tra l’altro, una divisione inaccettabile tra i dipendenti delle aziende con maggior o minore potere contrattuale, eliminando di fatto per tutti i lavoratori la certezza di poter accedere alle condizioni garantite dal contratto nazionale di categoria.

L’attacco al contratto nazionale e all’art. 18 va inserito quindi all’interno di un lungo processo volto alla completa destrutturazione dei diritti e delle tutele dei lavoratori. Si approfitta della crisi finanziaria, non solo per ottenere rendite sproporzionate attraverso la lievitazione degli interessi sul debito pubblico, ma come occasione per eliminare le garanzie conquistate dal mondo del lavoro attraverso percorsi durati diversi decenni. Con le modifiche alla legislazione varate dai Governi di Monti e Berlusconi, senza alcun accordo con le parti sociali, si sono andate a smontare le principali difese, sia individuali che collettive, per chi lavoro, alterando irrimediabilmente i rapporti di forza nei luoghi di lavoro e gravando ancora di più la situazione del lavoratore inteso quale “contraente debole”. La L. 92/2012 (Legge Fornero) per quanto riguarda i licenziamenti, aderisce alla visione del tutto ideologica, in quanto fondata su assunti indimostrati e criticati da qualsiasi ricerca seria, che le regole sulla flessibilità in uscita dell’ordinamento Italiano, siano caratterizzare da maggiore rigidità rispetto agli altri paesi e che, attenuando il regime di tutela contro i licenziamenti ingiustificati, sia possibile creare nuova occupazione e ridistribuire il modo più equo le tutele del lavoro. Naturalmente si tratta di una politica del diritto a ribasso, dove, invece di estendere a tutti le stesse tutele, le si toglie a tutti.

Con la riforma del diritto del lavoro, appena varata dal governo Monti, si trasforma quindi l’art. 18 dello Statuto, dove la nuova formulazione (al contrario di quello che dice il Ministro del Lavoro) non introduce nessuna nuova causa di licenziamento, ma incide solo sul trattamento sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, ovvero su quale sia la conseguenza per il lavoratore ed il datore di lavoro una volta che sia stata accertato il fatto che il licenziamento è stato comminato in violazione delle leggi esistenti in materia, in quanto privo di giusta causa o di giustificato motivo. In tal caso si stabiliscono tetti massimi irrisori ai risarcimenti che saranno disposti in favore dei lavoratori licenziati illegittimamente, risarcimenti che vanno dai sei mesi (paradossalmente per la violazione più palese, il licenziamento privo di motivazione), fino a ventiquattro mesi. La reintegrazione viene di fatto abolita, sia per il licenziamento che verrà definito, strumentalmente, come disciplinare, rimanendo la stessa limitata a casi marginali, che per il licenziamento che verrà definito, strumentalmente, come “economico”, nel quale il reintegro previsto sulla carta è limitato ad ipotesi del tutto impraticabili, così come per i licenziamenti collettivi illegittimi, aprendo la strada ad espulsioni di massa di lavoratori.

In nome delle politiche di austerità e di liberalizzazione del mercato del lavoro volute dall’Unione Europea quindi, cancellando l’art. 18, si realizza ciò che fu impedito al governo Berlusconi. L’attuale riforma non contrasta ma facilita il dilagare della precarietà, non potenzia gli ammortizzatori sociali per renderli universali ma li riduce nei processi di riconversione industriale. Il progetto del Premier Monti e del Ministro Fornero è stato fatto proprio dalla maggioranza PD-PdL-UDC che ha approvato addirittura emendamenti peggiorativi rispetto al testo del Governo. Ad esempio si raddoppia il periodo di durata massima dei contratti precari che possono essere stipulati a prescindere da esigenze di natura oggettiva, ovvero a-causali, da 6 a 12 mesi. Rimane intanto quasi immutato l’ampio spettro di possibilità di contratti di lavoro precari introdotto dalla d.lgs 276/2003. Con l’entrata in vigore della nuova normativa un datore di lavoro, potrà, del tutto legittimamente, costruire pressoché la propria intera forza lavoro di basso livello su contratti precari purché rinnovati ogni dodici mesi.

Il comitato promotore dei referedum costituito dai leader dei partiti che hanno promosso i Referendum sul lavoro (Idv, Sel, Pdci, Prc, Verdi) , dai leader della Fiom e delle componenti Cgil Lavoro e Società, la Cgil Che vogliamo, da associazioni della società civile come Alba, Articolo 21, da giornalisti e docenti universitari, si propone come obiettivo proprio l’abrogazione delle due leggi del Governo Monti e Berlusconi, che hanno di fatto cancellato l’articolo 18 dello statuto dei Diritti dei Lavoratori e l’articolo 8 della legge finanziaria. Proprio quest’ultima, approvata lo scorso agosto dal governo Berlusconi, ha dato un colpo mortale al contratto nazionale. Certamente il referendum non è lo strumento più consono ed efficace nella regolamentazione delle relazioni e dei rapporti sociali, ma oggi lo diventa in quanto il lavoro, oltre a non trovare alcuna rappresentanza politica, non è più considerato un soggetto portatore di interessi autonomi all’interno della mediazione sociale. Bisogna perciò avversare, questa lotta intrapresa dalla classe dominante nei confronti della classe lavoratrice, avallata dalla quasi generalità dello schieramento politico, per fare del mondo del lavoro un universo ricattabile, nel quale la mancanza di tutela reale renderà impossibile la rivendicazione di diritti, di migliori condizioni, di tutela della salute, e la lotta alle discriminazioni.

I difensori del contratto nazionale e dell’articolo 18 non parlano solo alla generalità del disperso mondo del lavoro, ma parlano ai giovani disoccupati, ai precari perché sono tra i più importanti capisaldi della civiltà e rappresentano la chiave di volta verso la riunificazione del mondo del lavoro, attraverso la conquista di nuovi diritti e per una più sostenibile organizzazione del lavoro. La vittoria del fronte referendario comporterebbe quindi miglioramenti sostanziali nella condizione materiale di milioni e milioni di lavoratori. Una vittoria dei referendum non abrogherebbe solo leggi che hanno fatto tornare indietro di decenni i diritti dei lavoratori, ma comporterebbe soprattutto una trasformazione radicale dell’orizzonte complessivo. Quella che si prospetta è una battaglia di “democrazia” così come per i referendum del giugno 2011 su acqua e nucleare. I quesiti referendari riguardano direttamente la vita quotidiana e le condizioni di lavoro. Politicamente, però, determinare dal basso, grazie a un esercizio di democrazia diretta, l’inversione di rotta su due questioni che hanno assunto anche un fortissimo significato simbolico, avrebbe conseguenze persino più significative. Verrebbe per la prima volta bloccata la strategia, feroce e oltretutto perdente, che cerca di competere sul mercato internazionale abbassando il costo del lavoro ed eliminando i diritti dei lavoratori invece che puntando su strategie industriali coraggiose, innovazione e ricerca, crescente coinvolgimento dei lavoratori Per questo firmare per i referendum e poi vincerli riguarda tutti i lavoratori e tutti i cittadini italiani. Nessuno escluso.