Restiamo in casa

di Cosimo Spada

Quanti anni servono, secondo voi, per potersi considerare saggi?
Come? Noooo troppi, vabbé non tiriamola per le lunghe, ve lo dico io: ne bastano appena tre.
Ebbene sì, a farmelo capire è stato mio nipote Simone.
Come tutti i bambini della sua età ama giocare e correre e possiede un parco macchinine che neanche il parlamento può vantare.
Ma se c’è una cosa che mi sorprende sempre è che quando vuole vedere la tv si accascia sul letto o sul divano si sistema la copertina e si gode i suoi cartoni in completo relax e che nessuno si permetta di infastidirlo!
Caro Simone tu ne sai già a pacchi della vita, con solo quel  gesto, neanche riesco ad immaginare cosa sarai in grado di imparare tra qualche anno (mi auguro che tu non impari mai la parola “democristiano”, né “tenerone”).
Mio nipote è arrivato, con estremo anticipo, a capire qualcosa che molti musicisti avevano già capito da anni: quanto è bello starsene in casa a fare ciò che ti piace.
La possibilità di suonare e registrare in casa o in un altro luogo che non sia lo studio di registrazione è andata di pari passo negli anni con l’evoluzione delle tecnologie di registrazione audio. Tra i primi ad abbandonare lo studio per registrare il proprio album sono stati i Led Zeppelin. Ai tempi di Led Zeppelin IV Jimi Page, al quale prima o poi qualcuno dovrà dare una laurea in fisica, per le sue conoscenze nel campo dell’acustica. Page voleva un suono naturale rispetto a quello che gli poteva dare uno studio, portò gli Zeppelin in una villa in campagna dal soffitto  abbastanza alto e lì registrarono il loro capolavoro, ascoltate “When the Levee Breaks” sopratutto la batteria di Bonham e restate incantati.
L’intimità del registrare in casa è però molto più affine al folk, e sopratutto in quest’ultimo decennio, grazie ai nuovi programmi di registrazione casalinghi (Garage Band, Logic, ecc.) la possibilità di registrare nelle “camerette” è diventata una realtà, con risultati qualitativi spesso buoni.
Gli anni 00 sono stati sicuramente il momento di maggior splendore per questo genere, dopo i fasti degli anni 70. Eppure malgrado questo successo, spesso alcuni di questi artisti decidono, quasi come fosse un’autodifesa, di registrare il loro album in casa: Come fa spesso Devendra Banhart.
Devendra Banhart , artisticamente, è figlio di questi anni per il suo appropriarsi di tanti elementi, culture e centrifugarle tutte insieme, canta in inglese, in spagnolo, nell’ultimo album persino in tedesco, si presenta in pubblico come un guru indiano con tanto di punto del chakra sulla fronte. Nato negli Stati Uniti, cresciuto, dopo il divorzio dei suoi genitori, in Venezuela e poi approdato a San Francisco dopo l’adolescenza. La sua musica è sempre stata influenzata dalla cultura hippie e dal misticismo indiano; non è un caso questo dato che il suo stesso nome è di origine induista, è uno dei nomi del re degli dei. I suoi primi due album “The Charles C. Leary” e “Oh Me Oh My” sono registrazioni casalinghe, con tanto di fruscio ogni volta che parte una traccia! Successivamente, da Cripple Crow, Devendra ha puntato su un suono più accurato e si è fatto affiancare da una band.
Poche settimane fa è uscito il suo nuovo album “Mala” . Per me è uno dei più bei album che ho ascoltato fino ad ora in questo 2013.
Mala è una parola serba che significa “piccola” ed è usato come appellativo affettuoso. Il riferimento geografico della parola non è casuale; infatti da poco Devendra è sposato con l’artista serba Ana Kras, ed è proprio questo evento l’elemento scatenante dell’album. Per portare su album quell’atmosfera di intimità coniugale Devendra ha voluto tornare a registrare in casa, anche se questa volta ha curato molto di più la resa sonora dell’album. Come per i precedenti album Devendra opta per dei testi spesso criptici come nell’apertura di Golden Girls dove nei pochi versi che compongono la canzone si parla di giovani ballerini e di credenti, sembra quasi che sia il prosieguo di pensieri di Devendra, ma che solo quest’ultimo frammento sia stato catturato dai microfoni. La segue Daniel una delicata ballata dedicata a Bret Anderson leader dei Suede dove Devendra immagina un loro concerto come sfondo ad un appuntamento romantico. Le due canzoni che personalmente preferisco dell’album sono Mi Negrita, un pezzo vagamente mariachi, sul tormento di un innamorato, dove Devendra ricorre ad una voce da crooner dal timbro molto caldo e confidenziale per convincere la sua amata, il tutto cantato in spagnolo che aggiunge passionalità alla canzone. Il secondo è Your Fine Petting Duck, cantata in coppia con la moglie. I due mettono in scena una simpatica storia tra due ex amanti, dove lei vorrebbe tornare con lui, ma lui le ricorda quanto è stato stronzo nella loro storia. Il pezzo si divide in due parti: la prima è uno scarno folk ma a metà entrano in scena i sinth e ci si ritrova in pezzo minimal tutto cantato in tedesco.
Tutto il disco però galleggia in una sorta di atmosfera di benessere ed anche nei momenti più malinconici questa atmosfera non muta mai. Per me è un ottimo album per superare questa primavera fatta di allergia e condizioni di tempo instabile.

Mentre scrivevo questo pezzo ascoltavo:
The Men, Open Your Heart, 2012


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