“Fumo sulla città” di Alessandro Leogrande

di Salvatore Romeo (’84)

La presentazione a Taranto di “Fumo sulla città” (tenutasi sabato 25 maggio presso Palazzo di Città), ultimo lavoro di Alessandro Leogrande, è stata l’occasione per riunire e mettere a confronto un pezzo della nostra comunità sull’analisi del passato e, soprattutto, sulle prospettive di futuro che la riguardano. Dal dibattito sono emersi elementi che – più che oggetto di riflessione – dovrebbero essere assunti quanto prima come linee di azione: assi di una prospettiva di radicale cambiamento dell’esistente. Prospettiva ormai non più rimandabile.

1)      Cambiare la fabbrica

Fumo sulla città ha il merito di evidenziare che la crisi ambientale esplosa con intensità inaudita nel corso dell’ultimo anno ha radici profonde nel sistema di potere instaurato all’interno del siderurgico dalla famiglia Riva. Il radicale ricambio generazionale, l’abbattimento dei livelli di sindacalizzazione – più in generale, la creazione di una classe operaia dalle caratteristiche “gelatinose”  è stata la condizione attraverso la quale i nuovi proprietari privati hanno potuto gestire nella maniera criminale emersa dalle indagini della Magistratura il più grande stabilimento produttivo del paese. In breve, si è prodotta quella tipica alienazione – che Leogrande cita esplicitamente nelle pagine finali del libro – su cui si era soffermata la riflessione del giovane Marx. Sul lavoro – che dovrebbe essere la dimensione della sua realizzazione –, l’individuo è sottomesso da processi che egli non controlla; solo nel soddisfacimento dei bisogni – che ai tempi di Marx si riducevano poco più che al sostentamento proprio ed eventualmente della propria famiglia, ma oggi includono una vasta gamma di bisogni indotti, come l’acquisto di status symbol –  egli consegue una libertà apparente. L’immagine dell’operaio neo-assunto – anzi, confermato a tempo indeterminato dopo il periodo di formazione lavoro – che sottoscrive un mutuo per l’acquisto di una casa, e resta legato al posto di lavoro in virtù dell’estinzione dello stesso finanziamento, è la rappresentazione plastica di questa dinamica. Scompare così dalla prospettiva operaia la questione della sicurezza e della salute propria e dei propri concittadini – insieme a tutte le altre questioni legate al controllo del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro. In queste condizioni l’azienda è libera di fare quel che vuole, fronteggiata al più dalle organizzazioni sindacali – la cui incisività è tuttavia minata dal peculiare stato di subalternità dei lavoratori.

L’errore grave commesso negli ultimi anni da alcune parti politiche e da pezzi consistenti di movimento è stato credere di poter cambiare il rapporto fra città e fabbrica senza tuttavia porsi il problema di cambiare i rapporti di potere interni alla fabbrica, affrontando dunque il tema fondamentale dell’alienazione. E’ urgente invece focalizzare l’attenzione su questo punto e disporsi ad agire di conseguenza. La soluzione della “questione ILVA” non può prescindere dal tipo di rapporto di potere che si verrà a determinare dentro la fabbrica. Qualunque sia la nuova gestione – posto che i Riva sono ormai al tracollo – che ruolo avranno i lavoratori nel controllo dei processi? E in che modo si può tentare di radicare nella popolazione operaia la convinzione che solo da una sua diretta assunzione di responsabilità rispetto al funzionamento della fabbrica può venire la chiave per il completo risanamento ambientale? Se si vogliono affrontare concretamente questi temi occorre partire (quanto prima) da quello che esiste qui ed ora: è necessario tessere un rapporto costruttivo fra le parti più avanzate della società civile – in particolare, del movimento ambientalista – e del movimento operaio. Finché queste componenti resteranno distanti, reciprocamente sospettose o ostili, il cambiamento possibile sarà solo in peggio. E’ necessaria una sintesi che ponga al centro la costruzione di una nuova figura di lavoratore – un lavoratore finalmente consapevole del proprio potere sulla produzione, che miri dunque a condizionarla nell’interesse dell’intera comunità.

2)      Una nuova idea di cittadinanza

Questo percorso tuttavia rischia di restare lettera morta per via di una criticità che affligge in maniera sempre più drammatica la società locale: l’emigrazione di giovani intelligenze, che sta depauperando delle energie migliori la nostra città. La società civile tarantina, data questa tendenza, rischia di essere ridotta a una riserva sempre più marginale ed ininfluente. Per ribaltare questo piano inclinato occorre elaborare un nuovo rapporto con l’emigrazione – e con gli emigranti. E’ necessario tenere il più possibile saldi i fili che ancora legano le migliaia di Tarantini sparsi per l’Italia e per il mondo alla comunità di origine. Ma non c’è da coinvolgere solo gli emigranti in quest’opera di riaggregazione: più in generale, è urgente porre il “caso Taranto” come grande questione nazionale – uno dei punti strategici da cui passa il futuro del paese –, impegnando nella sua soluzione le personalità più valide di cui il paese dispone. Questa concentrazione di capacità deve essere impegnata  in percorsi e progetti di trasformazione, in modo da compensare il venir meno della pressione demografica – che in genere favorisce la conservazione dello status quo – con una pressione delle intelligenze – che ponga le classi dirigenti locali di fronte alle proprie responsabilità nei confronti di un’intera generazione in via d’estinzione e di una città che così rischia di degradare progressivamente.  Un’idea di cittadinanza estesa deve diventare quindi la chiave per provare a far rifluire verso Taranto capacità e talenti, mettendoli a disposizione di una prospettiva di ricostruzione. Una prospettiva che, in primo luogo, aggredisca il macroscopico problema della disoccupazione giovanile, cioè la radice del vasto movimento di emigrazione, attraverso una progettualità che miri a modificare il modello di sviluppo locale – puntando ai comparti della conoscenza e alle attività che possano assorbire giovani con elevati livelli di formazione e costruendo attorno a queste esigenze una dimensione urbana adeguata.

3)      Un “cantiere” per il cambiamento

Lo sforzo immane che queste due linee d’azione richiedono obbliga ad un impegno politico serio. Nel corso dell’incontro è emerso in più occasioni l’appello alla costruzione di un “cantiere” delle forze che in città hanno intenzione di battersi per il cambiamento. Si tratterebbe di un progetto tutto da creare, ma che non partirebbe dal nulla. Si sono già citate le componenti “illuminate” dell’ambientalismo e del movimento operaio; a queste vanno aggiunti i soggetti che in questi anni si sono battuti sul fronte degli spazi sociali, dei diritti degli studenti e della riqualificazione del polo universitario jonico, del recupero di aree abbandonate della città, della tutela dei migranti, della creazione di nuove economie “dal basso” ecc.; e ancora le singole intelligenze che provano a riflettere criticamente sulle vicende della nostra comunità e ad abbattere la cappa di municipalismo che troppo spesso caratterizza il dibattito locale. Tutti questi sono pezzi che, messi insieme, potrebbero fare massa critica e disegnare un futuro per una città che rischia di sprofondare e cadere nelle mani del Messia di turno.

Da queste brevi riflessioni non può che derivare un invito a chiunque senta che è venuto il momento di reagire alla marea che rischia di travolgerci e distruggerci. Riattiviamo tutti i canali di dialogo possibili; abbandoniamo ostilità e divergenze spesso artificiose. E’ urgente mettersi a disposizione di un qualcosa di più ampio e importante dei nostri rispettivi cortili. Facciamolo il prima possibile, per non dover continuare a subire, inermi e disorientati, gli eventi che stanno sconvolgendo le nostre vite.