Distrutta l’ILVA… al Torino Film Festival

di Serena Mancini

Nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio l’Ilva è saltata in aria. Mentre la città festeggiava l’arrivo del nuovo anno i fuochi d’artificio hanno incorniciato la distruzione del siderurgico. Dopo aver fatto esplodere le ciminiere, i responsabili si sono dileguati a bordo di una barca a vela tra lo stupore e la gioia di chi questo momento l’aveva sempre sognato. Gli artefici dell’attentato sono di diversa nazionalità: oltre ai due tarantini il gruppo si compone di un palestinese, un francese e una greca. Questa la vicenda descritta da Giacomo Abbruzzese nel cortometraggio Fireworks, presentato alla 29ª edizione del Torino Film festival all’interno della sezione “italiana.corti”. Il giovane regista tarantino ha voluto girare il suo ultimo lavoro nella città jonica, nella quale ha vissuto sino all’età di 19 anni, per provare ad immaginarla finalmente libera dallo stabilimento. Specializzatosi in cinema, televisione e produzione multimediale al Dams di Bologna, Abbruzzese ha già ottenuto diversi riconoscimenti tra cui il premio come miglior cortometraggio alla scorsa edizione del torino film festival per Archipel, corto interamente girato in Palestina.

Nelle tue precedenti esperienze ti sei occupato di contesti anche molto lontani, su tutti la Palestina. Cosa ti ha spinto a “tornare” a Taranto?

Taranto è la mia città, la città in cui sono nato e in cui ho vissuto fino a 19 anni, dove c’è tutta la mia famiglia. Il mio rapporto con la città è sempre molto vivo, ci torno spesso. Questo è il primo film che giro a Taranto, perché consideravo complesso relazionarmi alla mia città. È un film che ha preso forme diverse. Quattro anni fa avevo scritto un film dal taglio più documentaristico, il cui obiettivo era raccontare cosa accade a Taranto a livello della problematica ambientale. Successivamente la questione dell’inquinamento provocato dal siderurgico si è diffusa, per cui ho avuto voglia di provare a inventare qualcosa di nuovo. E lavorare per esempio su un sogno – conscio o inconscio – comune a molti tarantini: quello di veder saltare in aria l’Ilva. Personalmente ho avuto il desiderio di scappare dalla mia città per varie ragioni, tra cui anche l’inquinamento, e sono consapevole di essere stato fortunato ad aver avuto questa possibilità. Oggi sento ancora una sorta di debito nei confronti della mia città, per cui volevo farle regalo di un’immagine, quella della distruzione del siderurgico. Non sono un politico, non sta a me fornire le soluzioni ai problemi; il cinema lavora sull’immaginario e l’idea era quella di costruire un film attorno a questa immagine di tempesta.

Il film sembra esprimere un’utopia sull’incontro fra popoli diversi che si battono insieme contro un nemico comune che distrugge uomini e natura. Più che una semplice narrazione hai voluto proporre una sorta di “manifesto” ideale?

E’ una bella domanda. Parto col dire che credo nell’internazionalismo. E’ importante che per risolvere certe questioni ci sia condivisione. Molte battaglie che hanno riguardato questioni locali – a prescindere dal fatto che poi siano state vinte o perse –, sono state combattute con una grande partecipazione internazionale – possiamo risalire sino alla guerra civile in Spagna. In diversi momenti storici vi sono state persone che con grande generosità hanno deciso di condividere le cause dei popoli oppressi. Taranto avrebbe bisogno di un impegno così ampio, dal momento che è una città estremamente provinciale, chiusa. L’obiettivo di questo film era proprio quello di trasformare Taranto in una città aperta e quindi introdurvi quasi delle figure mitologiche, degli “angeli pasoliniani”: un palestinese, una greca, un francese che arrivano e portano la rivolta.

Quindi si tratta sempre del nostro stereotipo dell’eroe esterno che arriva a salvarci…

Si, ma fra i protagonisti ci sono anche due tarantini che non sono figure passive. Penso che ci sia sempre bisogno degli altri. L’autarchia è una sciocchezza. È come per la Resistenza: c’erano tante persone che lottavano, ma non ci sarebbe mai potuta essere una liberazione se non vi fosse stato l’intervento di forze esterne. Ci vuole una base di lotta e una capacità di internazionalizzare la lotta, sempre.

Come hai già accennato, nel corto i protagonisti vengono da quattro contesti diversi, che sembrano però accomunati da forti tensioni: il palestinese che vive sulla sua pelle l’occupazione israeliana, il francese che viene dalla seconda città più inquinata d’Europa (Dunkerque), la greca che indossa una maglietta col nome di Aleksandros Grigoropoulos – il ragazzo ucciso negli scontri di Atene del 2008 – e il tarantino figlio di un ex operaio Italsider. Hai immaginato Taranto come crocevia di diverse crisi che scuotono l’Europa e il Mediterraneo?


Non so se definire Taranto un crocevia. L’idea è che la lotta non si esaurisca solo nel proprio territorio. Ad esempio mi piace immaginare che persino un Palestinese, con tutti i problemi nel suo paese, possa venire a Taranto per portare la sua esperienza. Quindi Taranto in sé non è un crocevia. Il crocevia in Fireworks sono le vite che si intrecciano. Io credo che l’Ilva sia stata anche costruita con delle buone intenzioni, da persone che magari all’epoca credevano davvero che quella fabbrica sarebbe stata una svolta positiva. E’ stata una grande ingenuità, ma allora non c’era coscienza ambientale. È facile ora dire che si è trattato di un errore madornale, certo possiamo dire “risolviamo l’errore madornale”.

Gli stessi protagonisti comunicano tra di loro utilizzando ciascuno la propria lingua (il Tarantino si esprime in dialetto) e riescono a capirsi benissimo. La condivisione di uno stesso ideale credi possa contribuire a superare le differenze culturali?

È una lettura legittima, ma non era il mio primo pensiero. C’è un aspetto personale, che viene dal fatto che nella vita di tutti i giorni devo parlare più lingue, e a volte per ragioni di lavoro – per esempio quando ho lavorato come direttore artistico alla televisione pubblica palestinese – ho sviluppato un’attenzione nel capire alcune cose in una lingua anche non conoscendola. Mi piace lavorare con attori che parlano lingue diverse, capire come stanno recitando anche se non conosco la loro lingua. Poi più in generale era per me era un modo per far entrare lo spettatore nel mondo del film, in una realtà verosimile ma con una piccola dose di impossibile. È la giusta distanza rispetto al film.

Ma tutto questo è inserito in un sogno…

Non penso si tratti di questo. Il film non è un sogno, ma qualcosa che si sgancia dalla realtà. E’ un altro mondo possibile. Ho voluto che lo spettatore vedesse persone comunicare in lingue diverse per creare uno scarto leggero rispetto alla realtà e permettere così ad alcune cose di accadere.

C’è un altro contrasto nel film: di fronte alla potenza super-moderna della fabbrica , le immagini che raccontano la città rimandano quasi a un’altra epoca (il motorino scassato, la Renault 4 di uno dei protagonisti, la barca a vela ecc.). Come mai hai voluto dare questa immagine?

A me piace lavorare con cose diverse, su registri diversi. Mi interessava che il film fosse contemporaneo, ma che avesse anche un tocco nostalgico, un certo fascino per la rovina. Poi questa scelta sui mezzi di trasporto mi ha permesso di raccontare un aspetto dei personaggi, che sono dei grandi romantici. A differenza del mio precedente film Archipel (in italiano Arcipelago), girato in Palestina, in questo caso giocavo in casa e potevo esprimermi in una maniera più libera. Per me l’Ilva ha una sua bellezza, sebbene una bellezza d’orrore. Io sogno un’Ilva spenta ma non distrutta, da trasformare in uno splendido museo d’arte contemporanea, in un grande studios cinematografico, in uno spazio per artisti e per la comunità. Per potermi confrontare con questo “mostro” dovevo fare un film in un certo senso spettacolare, che usasse la grande forma – penso alla scena del palestinese che scende dall’elicottero –, ma abbinata a dei momenti di intimità con i personaggi. Potrei definirlo un film d’arte ma anche d’azione e spero che questo possa permettergli di raggiungere un pubblico relativamente vasto.

Nel film si percepisce un’assenza fondamentale: c’è la città, ma manca la sua gente. La “liberazione”, per come tu la immagini, passa attraverso l’azione di un piccolo gruppo?


Questa può essere una giusta critica al film, ma ci sono delle ragioni concrete che hanno portato a questa parziale assenza. Il fatto di girare in locations in larga parte inaccessibili ai Tarantini implica necessariamente l’assenza di altre persone. Poi in Fireworks c’erano già 5 personaggi, che sono tanti per un cortometraggio, per cui gestirne altri sarebbe stato difficile. Sono state considerazioni anche pratiche, spero però che una presenza degli abitanti della città, quasi sottotraccia, sia percepita attraverso le parole dei personaggi. Non credo assolutamente che solo un piccolo gruppo possa cambiare le sorti di una città.

Nel presentare il film al Torino Film Festival hai detto che l’immagine finale – la distruzione dell’ILVA – è “il sogno di tutti i Tarantini”. Pensi sia anche il sogno delle persone che ci lavorano?

Ho semplificato molto, in pochi minuti è difficile provare a spiegare la complessità del dibattito che si è sviluppato sulla questione Ilva. Ma quando parlo di “sogno” non parlo di puro e semplice desiderio, di qualcosa di conscio. Secondo me l’ immagine di Taranto senza il profilo dell’Ilva può affascinare anche una persona che ci lavora e che comunque ha interesse che il siderurgico continui ad esserci. Spero di aver regalato alla mia città un film che fa sognare, che sia pertinente e che dia speranza.

3 Comments

  1. OKKINè December 6, 2011 12:06 am 

    La speranza uccide, è abulia….mai avere speranza! ciao mario!

  2. Anna Vozza December 7, 2011 6:38 am 

    La distruzione mediante attacco esplosivo comporterebbe radere al suolo definitivamente il rione Tamburi con migliaia di morti.Non è la soluzione che vogliamo .NOI VOGLIAMO VIVERE ! O morire per i nostri figli.

  3. Tike December 12, 2011 12:19 pm 

    That’s what we’ve all been wtaniig for! Great posting!

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