Storia di una battaglia persa (per ora)

di Roberto Polidori

Come anticipato nel numero precedente di Siderlandia, si è parlato molto di AIA nella parte più cospicua dell’intervista concessa dall’ingegnere De Marzo; alla luce di qualche commento che ha corredato la prima parte dell’intervista, voglio precisare senza ironia che quanto sotto riportato è la fedele trascrizione di ciò che ho udito e registrato, al netto di alcune precisazioni tecniche recuperabili, all’occorrenza, dalle registrazioni in mio possesso.

Come nasce Altamarea?

Se vogliamo l’evento decisivo che ha permesso di far confluire le iniziative cittadine a tutela dell’ambiente è stata la polemica sul rigassificatore previsto a Taranto; nacque il Comitato Cittadino No al Rigassificatore. Sull’onda del successo del comitato – il rigassificatore non fu costruito – è nato il Comitato per Taranto che ha tentato di risvegliare le sensibilità dei cittadiniin merito alla situazione ambientale e sanitaria della città, sostanzialmente vincolata alle decisioni di qualche politico. Verificammo che un gruppo di cittadini organizzati e in grado di informare poteva coinvolgere altri cittadini fare pressione sull’opinione pubblica.

Se Lei dovesse sintetizzare la finalità di Altamareacon un’attività specifica, di cosa parlerebbe?

Il momento più ricco della nostra esperienza è stato la presentazione delle osservazioni alla domanda di Autorizzazione Integrata Ambientale presentata dall’ILVA. In quella sede scoprimmo l’esistenza di uno strumento formidabile che l’Europa aveva dato a se stessa e a tutti gli stati aderenti all’Unione per abbattere e ridurre l’inquinamento di origine industriale.

Fino a quel momento a Taranto, dal punto di vista della tutela ambientale, eravamo rimasti al dibattito sugli atti d’intesa (accordi formalizzati tra le parti) nati all’epoca della Presidenza Regionale di Fitto – parliamo del 2005 – poi portati avanti anche da Vendola. Maurizio Sarti, un collega in Ilva, mi fece scoprire l’esistenza di una scadenza per la presentazione dell’AIA (30 Ottobre 2007) da parte di tutte le aziende del territorio europeo.

E quindi abbiamo pagato già cospicue multe alla Comunità Europea per le infrazioni, dato che ILVA ha ottenuto l’AIA ultimamente

Esattamente: le procedure d’infrazione sono già state avviate e si tratta di parecchi soldi.

Questa legge europea è stata boicottata dal primo momento e dopo la sua ratifica – acquisita con ritardi e limitazioni – le aziende italiane avrebbero dovuto presentare la domanda di acquisizione dell’AIA entro il 28 Febbraio 2007; noi scoprimmo che l’ILVA aveva presentato la domanda quasi alla scadenza del termine utile affinché i cittadini potessero avanzare osservazioni sulla domanda presentata da ILVA.

La domanda era naturalmente dotata di una documentazione tecnica enorme. Agli inizi di Agosto riuscimmo a sapere dal Ministero dell’Ambiente che la domanda era stata presentata e pubblicizzata su un quotidiano nazionale – un francobollo sul Sole 24 Ore, giornale notissimo per essere la lettura preferita dei cittadini tarantini….Mi chiedo ancora oggi come sia possibile che la legge non preveda una forma obbligatoria di pubblicità su un quotidiano diffuso sul territorio su cui insiste un impianto industriale al quale deve essere concessa l’AIA.

Nessuno sapeva niente al Comune di Taranto, né in Provincia; la Regione non ci rispose neanche. Secondo la legge, i cittadini avrebbero dovuto presentare le osservazioni alla domanda presentata da ILVA entro il 20 Agosto: si trattava di un documento tecnico costituito da circa mille pagine….A fine Agosto del 2007, unici in Italia, partimmo per Roma e presentammo al Ministero dell’Ambiente una quantità tale di obiezioni da ritardare la concessione di quasi quattro anni. Diciamo pure che il Ministero ha impiegato quattro anni per confondere le lingue, aggirare le nostre osservazioni e arrivare a quella mistificazione che oggi chiamiamo AIA, concessa ad ILVA in Agosto 2011. E l’ILVA ha avuto anche il coraggio di ricorrere al TAR perché le prescrizioni previste sarebbero troppo cogenti e restrittive per l’azienda….

Già nel Comitato per Taranto confluivano tante associazioni, tra le quali ricordo Legambiente con Leo Corvace, Peacelink con Alessandro Marescotti, AIL con Paola D’Andria. La prima lettera di osservazioni fu firmata da tutte le associazioni e molti cittadini; da allora abbiamo esteso il nostro lavoro alla realtà della società civile tarantina, tanto è vero che spedimmo al Ministero dell’Ambiente, nel Gennaio 2009, una lettera contenente le prescrizioni a cui l’ILVA avrebbe dovuto conformarsi per ottenere l’AIA; la sottoscrissero i sindaci di Taranto e Statte e 67 associazioni della società civile di Taranto, tra cui diversi ordini professionali e sindacati di categoria. So per via informale che l’ILVA reagì in modo scomposto rendendo noto alla figure politiche della città che l’applicazione pratica delle prescrizioni inserite nel documento da noi presentato avrebbe comportato la chiusura dell’ILVA. Noi ricordiamo ancora oggi quel documento firmato anche dal sindaco di Taranto per porre in risalto la discrepanza tra le affermazioni di facciata ed i comportamenti effettivi di chi dovrebbe rappresentare la gente di Taranto.

Alla fine com’è andata con l’AIA?

Il primo parere espresso dalla commissione IPPC – la commissione tecnica istituita presso il Ministero dell’Ambiente che valuta tutta la documentazione presentata da azienda e le osservazioni presentate da cittadini ed associazioni  – fu esternato nel 2009 ed era favorevole alle nostre eccezioni, anzi conteneva molte delle nostre prescrizioni; il Ministro dell’Ambiente precedente, Pecoraro Scanio, convenne con noi che l’ILVA adottasse una norma di legge precisa che consentise a casi particolarmente importanti – e sembrava che la norma fosse stata scritta per Taranto – di allungare di trecento giorni il tempo di concessione AIA, facendo intervenire lo Stato pesantemente. Ma 4 o 5 giorni prima delle elezioni tutto fu convertito in un Accordo di Programma su tutta la situazione ambientale di Taranto, includente le altre industrie inquinanti, non soltanto l’ILVA….poi cambiò il Governo e la prima cosa che fece la Prestigiacomo fu azzerare tutto il lavoro fatto dalla commissione IPPC. Oggi l’Accordo di Programma è stato riesumato sotto forma di “vertenza Taranto” dopo quasi tre anni da Sindaco e Presidente di Provincia che, a Roma, non sono stati neanche accolti dal Ministro delle Attività Produttive, ma da un Capo di Gabinetto, cioè da un funzionario importante, ma pur sempre da un funzionario. E Taranto è “l’industria in Italia”…..questo episodio è l’emblema del valore che le istanze dei cittadini tarantini hanno a Roma [siamo la pattumiera d’Italia  ndr…].

Ma quali erano le osservazioni contenute nell’Aia?

L’ILVA emette una quantità enorme di inquinanti dannosi alla salute umana. Abbiamo deciso di portare avanti la nostra battaglia attraverso lo strumento dell’AIA focalizzandoci sulle modalità di produzione ed emissione di ciascun inquinante. Abbiamo cominciato con la diossina.

E’ cominciato tutto da lì: Alessandro Marescotti – al quale la città dovrebbe dedicare almeno una statua – sollevò il problema della diossina a Taranto (parola fino ad allora sconosciuta in città). Lui scoprì che da un impianto – l’impianto di agglomerazione – fuoriusciva diossina in quantità enormi; la scoperta venne fuori leggendo registri PUBBLICI, accessibili a tutti: fu lui a leggere per primoi dati che le aziende comunicavano al Ministero e fu lui a svelarne i contenuti alla collettività. La cosa incredibile è che la stessa legge istitutiva dell’AIA (ecco perché noi abbiamo incentrato la nostra azione sul rispetto delle prescrizioni originarie dell’AIA) prevedeva l’analisi di questi registri analizzati da Marescotti. Venne fuori che l’ILVA di Taranto produceva il 95% della diossina italiana e di lì cominciarono le manifestazioni e le pressioni su Vendola, che nominò il Prof. Assennato Direttore dell’Arpa (Agenzia Regionale Prevenzione Ambientale). Noi contribuimmo materialmente a scrivere la legge regionale antidiossina che fissava il limite di emissione di diossina a 0,4 ng/m3 (nanogrammi su metro cubo), limite rispettato già da tempoin Europa ed anchea Trieste (grazie ad accordi bilaterali) su un impianto Severstal costituito da un solo altoforno e di dimensioni complessive pari a neanche un ventesimo dell’impianto di Taranto.  La legge italiana, nell’attesa dell’adozione della normativa europea e diversamente da quanto applicato in Europa, imponeva limiti pari a 10.000 ng/m3 su tutte le diossine presenti, nocive e non. Poiché a Taranto l’ILVA produceva (e produce) emettendo in atmosfera quantità di diossine nocive molto superiori a 0,4 ng/m3, l’adozione effettiva dei limiti imposti dall’UE avrebbe comportato la chiusura degli impianti.  Con questa furba legge nazionale, invece, la quantità di diossine nocive emesse da ILVA era “confusa” – in attesa dell’applicazione della normativa europea anche in Italia – con la quantità di diossine non nocive emesse sempre dalla stessa industria; con questa misurazione “globale” l’ILVA poteva dichiarare che il dato totale di emissione era molto inferiore alla concentrazione massima di emissioni totali per metro cubo prevista da questa legge. La legge regionale promulgata nel dicembre nel 2008 – dopo la prima marcia organizzata da Altamarea in Novembre 2008 – prevedeva l’adozione del limite europeo e l’ILVA accertò immediatamente che non avrebbe potuto rispettare i limiti; il Ministro Prestigiacomo impugnò immediatamente la Legge Regionale con la motivazione che, trattandosi di un sito di rilevanza nazionale, la competenza in materia ambientale spettava al Ministero e non alla Regione. Gianni Letta in persona “invitò” Vendola a depotenziare la Legge Regionale in cambio della mancata impugnazione di fronte alla Corte Costituzionale.

Ma ora il limite dei 0,4 ng/M3 è formalmente rispettato. Almeno questa battaglia è vinta. O mi sbaglio?

Il limite di emissione indicato dalla legge è rispettato tramite 4 controlli annuali effettuati con campionamento NON continuo. Il campionamento continuo è previsto ed imposto alle acciaierie elettriche di Piemonte e Lombardia.

Oggi, prima del controllo esclusivamente diurno, l’ILVA è avvisata in anticipo. Il campionatore automatico è un bussolotto che può essere applicato anche sugli altoforni più grandi, contrariamente a ciò che dice l’ILVA. Il campionamento continuo dei gas di emissione su altoforno si può fare. Guardacaso, poi, dall’ultimo campionamento, effettuato a distanza di 15 giorni dal penultimo, si è desunto un valore bassissimo di diossina che, mediato con i precedenti, ha magicamente riportato il dato nella media annuale prevista.

E cosa dice il Prof. Assennato?

Il Prof. Assennato dice che il campionamento continuo si può fare.

E allora a cosa servono questi campionamenti?

Intanto sappiamo che effettivamente, se le rilevazioni sono state fatte, è TECNICAMENTE possibile effettuarle e quindi non c’è motivo di affermare che le rilevazioni continue non sono possibili. La diossina non è commisurata alla quantità di produzione delle acciaierie, ma al livello di porcherie che sono immesse nell’agglomerato che serve al processo di produzione in altoforno. Se il cloro non va nell’altoforno non si produce diossina; e il cloro si trova solo nel rottame che contiene plastica: insomma, nel rottame utilizzato per la produzione troviamo schifezze plastiche che vengono poi bruciate ad altissime temperature.

Ma lei afferma ciò per sentito dire o perché l’ha visto con i suoi occhi?

Tutti quelli che hanno lavorato in ILVA sanno che nell’agglomerato, sotto forma di zolle, va afinire qualsiasi schifezza che contenga anche ferro.

Il problema più grosso sono però le emissioni diffuse: i gas di combustione dovrebbero passare attraverso enormi elettrofiltri prima di uscire dall’altoforno: questi sono pieni di buchi ed indovini come va a finire. Il Prof. Marescotti aveva fornito alla procura le analisi dei campioni di terreno a stretto contatto con le emissioni diffuse: la diossina delle emissioni diffuse lascia una sua impronta digitale differente da quella che esce dall’altoforno. La procura ha accertato che la diossina nel terreno dei famosi pascoli attigui alla fabbrica è quella proveniente dalle emissioni diffuse.

Allora persino la battaglia sulla diossina non è ancora vinta.

E vinta con queste avvertenze: 1)i limiti sono in media rispettati nella 40 ore di controlli con campionamento “pre-annunciato” non in continuo rispetto alle 7280 ore di attività annuale dell’impianto; 2) il controllo avviene solo sull’altoforno e non per le emissioni diffuse, che sono poi quelle che hanno SICURAMENTE  provocato l’inquinamento da diossina del terreno e quindi la contaminazione degli animali che pascolano attorno all’impianto (decretando l’abbattimento di centinaia di capi di bestiame e il divieto di pascolo in un raggio di 20 KM attorno all’ILVA). Faccia un po’ lei…

Noi presentammo a Vendola un documento in cui elencavamo i punti per noi irrinunciabili e scientificamente incontrovertibili ai fini della concessione dell’AIA; i più importanti sono i seguenti:

1)     il campionamento continuo.  Richiesta disattesa;

2)     l’eliminazione delle emissione diffuse. Richiesta disattesa;

3)     la copertura dei parchi primari. Richiesta disattesa;

4)     la revisione completa degli scarichi a mare; Richiesta neanche presa in considerazione;

5)     la delocalizzazione delle batterie, perché il problema più grave di Taranto è il benzo(a)pirene, prodotto nelle cokerie. Richiesta disattesa.

Mi rendo conto che se l’ILVA avesse ottemperato alle nostre richieste o, meglio, se un’AIA realmente efficace avesse costretto l’ILVA ad ottemperare, Riva avrebbe dovuto sostenere un onere economico di 15 -25 miliardi di euro in investimenti, secondo stime effettuate da me sulla base di dati economici pubblicati. Sicuramente sarebbe più conveniente chiudere il sito. Riva dice di aver investito 900 milioni in sicurezza degli impianti, ma è una favola: se sostituisco una macchina bivalente – una enorme macchina che cammina nel terreno ndr – con una nuova macchina che pago 100 e questa macchina incorpora un sistema ridicolo di sicurezza (lo spruzzaggio) che vale 5, posso anche dire di aver fatto investimenti in sicurezza pari a 100. La verità è che ho ammodernato gli impianti per produrre più e meglio, ma ho speso solo 5 in sicurezza. Bisognerebbe spiegarlo al Prof. Pirro: noi abbiamo contestato l’ammontare degli investimenti in sicurezza proprio perché abbiamo analizzato ciò che è stato speso per la sicurezza e ciò che è andato in investimenti produttivi.D’altra parte Riva ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui disse: “ per 30.000 Mld (15 Mld di euro) io vendo l’ILVA”. Naturalmente non può investire così tanto, altrimenti va in perdita.

In ogni caso non esiste alcun altro impianto siderurgico a ciclo continuo di queste dimensioni letteralmente attaccato a una città; la letteratura medica mondiale parla chiaro: un impianto siderurgico con area a caldo e a ciclo integrale,con cockerie, batteriee parchi minerari a cielo aperto, non può risiedere ameno di 5 km da un centro abitato. E, d’altra parte, io ho visto con i miei occhi un impianto siderurgico in Giappone gemello di ILVA per dimensioni, concezione  edisposizione degli spazi dove, per dirne una, le dispersioni diffuse non esistevano e che sembrava non emettere fumi. Non c’erano emissioni diffuse. E tutto questo già negli anni ottanta.Non è possibile rendere compatibile con l’ambiente le industrie ILVA a Taranto, a meno di non voler buttare giù tutto e ricostruirlo lontano dal centro abitato. Diciamolo.

Ancora: per produrre l’ILVA ha bisogno di raffreddare gli impianti con l’acqua di Mar Piccolo, che va poi in Mar Grande. La legge consente loro di fare le misurazioni degli inquinanti nell’acqua di mare antistante lo scarico, e non sullo scarico. E lì arrivano sia le acque di raffreddamento, che non sono inquinate e sono la gran parte, sia quelle di processo che sono tante ma poche in confronto alle acque di raffreddamento. La legge consente di misurare l’inquinamento in termini di concentrazione percentuale sul quantitativo totale già mischiato, con una diluizione cospicua degli inquinanti su un quantitativo totale di acqua sversato in mare pari a due piccoli fiumi (che si distinguono benissimo se ci si posiziona davanti agli scarichi ILVA dal mare) Ma la quantità di inquinanti che l’ILVA immette nell’acqua è enorme in valore assoluto e vamisuratanelle acque di processo sugli impianti, prima che queste vengano diluite in acqua pulita. La legge “normale” non vale per una fabbrica gigantesca.

La mia opinione personale e sintetica è che è impossibile rendere l’impianto ecocompatibile con la città. Noi ci siamo concentrati solo su benzo(a) pirene, diossine, scarichi a mare e parchi primari.Per controllare le fonti di inquinamento fuggitive e diffuse bisognerebbe controllare ogni valvola, data la vetustà degli impianti, su 1500 ettari di estensione degli stabilimenti. Insomma: mentre è possibile creare ex novo industrie ecocompatibili, è impossibile rendere ecocompatibili strutture industriali vetuste già esistenti a meno di non volere buttare giù tutto e ricostruire. Gli ex dipendenti dell’ILVA lo sanno bene: ecco perché sono spesso i più grandi critici dell’Ilva di Taranto.

1 comment

  1. Anonymous February 23, 2012 12:05 pm 

    Desidero fare i più sentiti complimenti e ringraziare Roberto Polidori per essere riuscito a rendere intelleggibile ai più il fiume di parole intercorse nella nostra lunga conversazione. Ci sono alcune imprecisioni (per esempio: altoforno invece di agglomerato, qualche dimenticanza nella successione temporale degli avvenimenti, ecc.). Sono piccole cose, rilevabili solo da chi le ha vissute direttamente, che, però, non inficiano il senso generale dei fatti. Penso che sia venuto fuori un bel canovaccio da utilizzare nel caso in cui, in una botta di esaltazione, decidessimo insieme di scrivere a quattro mani le vicende di questi ultimi anni. Biagio De Marzo

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