di Domenico Cinquegrana
Quando si entra in una casa in realtà si scopre un mondo sconosciuto. Oggetti, volti, storie diverse, a volte felici, spesso difficili. Assumere il ruolo di rilevatore ISTAT, seppur per pochi mesi, sta rappresentando un’esperienza che, quando presentai domanda, non avrei potuto descrivere. All’uscita della graduatoria finale risultai non selezionato. Poi molti colleghi rinunciarono e dal Comune arrivò la telefonata per la firma del contratto.
Da ultimo nella selezione mi fu affidata una zona che a detta di molti non risultava essere facile. Il “Bronx” per gli amici, la “Casbah” per altri. Via Giusti, via Capecelatro, parte di via Fratelli Mellone, zone della città molto vicine al centro ma troppo lontane dalla Taranto che governa.
Fui condizionato dai giudizi esterni. E del resto le prime rilevazioni sul campo non furono molto produttive. Alcuni portoni rotti, cassette della posta distrutte e citofoni dati alle fiamme.
“Signora, sono del Comune. Mi apre la porta?”. E giù con gli insulti.
Insomma, capii che c’era da lavorare, con pazienza e senza mai perdere il sorriso. Anzi, scoprii ben presto che quella veemenza, anche l’insulto, erano solo di facciata, rappresentavano uno sfogo, una reazione d’istinto. Così mi sono imbattuto in pittbull legati davanti ai portoni e ad occhi curiosi tra le persiane delle finestre. Del resto porre alcune domande, utili per la compilazione del modulo, può risultare invadente. “Je nun teng nind!”. In fondo, non solo a Cortina c’è qualcosa da perdere. Ma qui lo Stato chiede sempre e dà a volte.
La popolazione analizzata mi è apparsa immediatamente anziana, poche famiglie. E queste ultime spesso nate solo per sbaglio o per un immotivato desiderio di proliferare. Il sottoproletariato direbbe qualcuno, ragazzi con 3 o 4 figli a carico. Li ho osservati tra l’ammirato e lo stupito. L’arte dell’arrangiarsi, insomma, lavorando spesso in nero, alla giornata, senza sapere cosa ne sarà del domani.
I giorni sono passati e i pregiudizi anche. E la porte pian piano si sono aperte. Ho bevuto diversi caffè, mangiato cioccolatini, condiviso dolori, badato a neonati in fasce e censito anziani sul letto di morte. Ma tutto vissuto e raccontato con un’innaturale leggerezza. Come se nella mia mente quegli eventi fossero semplicemente umani. Nascere, vivere, soffrire, morire. Accade da sempre. Perché stupirsi?
Molti cittadini sono risultati irreperibili. Se ne sono andati da Taranto, dicono i vicini. E del resto i dati statistici parlano chiaro. La nostra è una città in coma, poco lavoro, pochi giovani e il morale sotto le scarpe.
Una nota di vitalità però mi è balzata subito all’attenzione. La presenza degli stranieri, spesso extracomunitari, per la maggior parte impegnati nella cura degli anziani, le donne, e nei cantieri edili, gli uomini. Ma tutti spinti da un enorme spirito di sacrificio. L’ottimismo del fare e il ricordo della sofferenza vissuta. Ho ancora nella mente l’odore di paprika proveniente dalla cucina di una famiglia dello Sri Lanka. Il sogno di un futuro migliore rinchiuso in una casa di 30 metri quadri. I bambini finalmente possono andare a scuola, mi ha raccontato orgoglioso il padre. Poi quella porta si è chiusa, lasciata alle spalle. Il lavoro non è terminato, mi mancano ancora alcune famiglie da incontrare con altri caffè da bere e altre vicende da ascoltare.
Le città nascondono il proprio lato dolente. in fondo è la prima regola che apprende chi si occupa di ociologia urbana.
a me per lavoro capita spesso di girare e normalmente lo faccio a piedi: le vedo ogni giorno, tristezze, mala gestione pubblica, aree popolatissime e dimenticate, analfabeti, mutilati, scene tragicomiche e sento parole nuove, imparo pezzi di vernacolo mai ascoltati. “Perfino il Padreterno da così lontano guardando quell’inferno dovrà benedire quel che non ha governo, nè mai ce lo avrà, quel che non ha vergogna ne mai ce lo avrà, quel che non ha giudizio” diceva una bellissima canzone. Taranto è una città del sud Italia e per questo non fa eccezione. Ma attenzione non è solo un segno di morte
Luca Occhionero
…quando ti rendi conto che l’esperienza di rilevatore ha un suo perché…testimonianza importante: l’ho condivisa sulla mia pagina facebook che normalmente prendeva un po in giro questa esperienza condivisa, ma sono d’accordo sull’aspetto che mi ha aiutato a ricordarmi che esiste una realtà che forse avevo finto di dimenticare…c’è tanto da fare per i politici, per le classi dirigenti, ma avrebbero dovuto cominciare vent’anni fa…
Michele, Rilevatore di Taranto