Quando Taranto divenne la città dell’acciaio. A colloquio con Roberto Nistri

di Vincenzo Vestita

Da qualche settimana è in libreria “L’età dell’acciaio” (Mandese Editore), ultima tappa di una monumentale opera sulla storia contemporanea di Taranto, cominciata già qualche anno fa con La città al Borgo e Taranto da Una Guerra all’altra e proseguito con Taranto dagli Ulivi agli Altoforni (2 volumi). Nel lavoro appena pubblicato sono affrontati gli anni ’70: gli anni della grande industrializzazione, in cui la città cambia definitivamente volto e iniziano ad emergere i primi rischi legati all’impatto degli impianti produttivi sul territorio e la salute dei cittadini. Ma anche gli anni di una straordinaria vitalità culturale e sociale, che Taranto non avrebbe più conosciuto fino ai giorni nostri. Dalla vicenda urbanistica alle dinamiche interne alla Chiesa, dalla nascita della controcultura allo sviluppo delle strutture scolastiche, il volume è un lungo excursus nel decennio più drammatico ed entusiasmante del Novecento jonico. Ne abbiamo parlato col curatore di questo e degli altri volumi, prof. Roberto Nistri

Il ricco e articolato dibattito sulla possibile collocazione del IV Centro Siderurgico, iniziato sul finire degli anni ’50, e la successiva assegnazione a Taranto non ha tenuto in considerazione solo elementi di natura logistico-industriali ma anche altri fattori. Qual’era la situazione a Taranto in quegli anni?

Comincio confessandoti che mi ha sempre meravigliato l’inesistenza di un legame tra “il mondo altro” (l’ILVA) ed il “fuori fabbrica”, che io stigmatizzo nel sottolineare l’inesistenza di un legame tra il mondo accademico – abbiamo una Facoltà di Economia – e una realtà economica così importante: quella fabbrica è la prima in Europa per dimensioni. Questo solo per dirti che Taranto si è tutto sommato dimensionata come “fuori fabbrica”, cioè realtà residuale della “fabbrica”, sin dall’inizio della sua storia moderna: i 150 dell’Unità d’Italia sono i 150 anni di Taranto. Una volta aperti i passaggi fuori delle mura la città nuova è stata “donata” alla Marina Militare.
Gli ufficiali pagatori si insediarono a Vico Seminario, acquistarono le terre e lo sviluppo fu donato: i tarantini non fecero niente per la costruzione del Borgo; naturalmente, in cambio, la città fu asservita alla funzionalità naval-meccanica. Insomma, la città è stata asservita al Ministero della Guerra: il classico caso di funzionalismo massimalista. Se nelle altre città il funzionalismo della città è contemperato da una certa attenzione per l’estetica (che identifica l’orgoglio cittadino per il proprio luogo di vita), ciò non era ammissibile per Taranto. Le strade della città furono organizzate per sfociare sul frontone dell’Arsenale, che prese il posto di fatto della Cattedrale.
Già a quei tempi ci fu un grosso dibattito se convenisse puntare su un porto militare o un porto mercantile; una seconda occasione per cercare di cambiare il proprio futuro. La seconda occasione fu la fine del secondo conflitto Mondiale, dal 1945 al 1960 (posa della prima pietra dell’Italsider), quando da Taranto si levarono continue richieste allo Stato affinché la città non morisse.

La Marina Militare esercitava la sua attrattiva sulla popolazione perché era l’unica erogatrice di posto fisso per chi abbandonava la terra. L’Ammiraglio era il deus ex machina della città, che disciplinava in modo ferreo la vita interna della fabbrica: il più importante sciopero degli arsenalotti fu quello del 1902, risolto con l’arrivo a Taranto di tre corazzate cariche di militari.

A questa influenza della Marina Militare fino agli anni ’50 si è poi sostituita quella della grande industria?

La concomitante politica di dirigismo e paternalismo della M.M. anticipò il modus operandi dell’Italsider a Taranto. L’Italsider istituì un Ufficio di Pubbliche Relazioni, offriva i buoni salario, creò il Circolo ricreativo Vaccarella: insomma gestiva la città come il buon padre di famiglia.
In quest’ottica l’Italsider è stato collocato a Taranto non soltanto per le caratteristiche geografiche, ambientali e morfologiche del sito – in questo senso Taranto non era “particolarmente conveniente” – ma anche perché il tarantino era assuefatto ad un certo tipo di “dominazione economica di megaimpianto”; soprattutto la grande industria siderurgica non avrebbe dovuto competere con altre industrie: in pratica ci si sarebbe limitati a sostituire un monopolio (Marina e Cantieri Tosi) con un altro monopolio.

Ma era necessario per il territorio ricevere in quel momento un insediamento industriale di quelle dimensioni?

Secondo me non è tanto vero che Taranto puzzasse di fame negli ani ’50; certamente si stava peggio a causa della riduzione degli ordinativi dei cantieri navali, ma secondo me la “povertà” della città fu ingigantita da politici democristiani che si fecero portavoci dell’operazione e volevano magnificarne le conseguenze economiche positive per la città.
Taranto non stava bene, ma stava certamente meglio di Bari e Lecce: era l’unica città industriale in Italia ad uscire dalla guerra con l’apparato industriale intatto e già nel 1952 era stato presentato un progetto di riconversione dei Cantieri Navali Militati in nautica da diporto e mercantile (Fiera del mare). Ma il progetto a Taranto fallì miseramente (mentre a Genova ha avuto successo fino ai giorni nostri) proprio per l’assenza di un’imprenditoria locale abituata ad non ad intraprendere ma a saziarsi delle grosse briciole di cibo lasciate sfuggite alla bocca del grande “pesce pilota”.
Eppure, stranamente, quelli furono gli anni in cui Taranto godeva di ottima fama agli occhi di chi la vedeva da fuori; il “premio letterario Taranto” era ambitissimo: nella giuria c’era addirittura Ungaretti e vennero a Taranto Gadda e Pasolini; in occasione del concorso per il monumento a Paisiello giunsero a Taranto scultori d’avanguardia : Franchina e Consagra, per citare due nomi.
Ancora un esempio: a Taranto si stava ricostituendo un certo tessuto produttivo e di consumo – le cooperative – già sperimentato nel primo dopoguerra, quando il ceto medio del reddito fisso era afflitto da gravi problemi di inflazione e i cittadini appartenenti a tali classi si aiutavano cooperando tra loro. In quei frangenti la “classe operaia” era riconosciuta come entità istituzionale detentrice di un certo potere con le proprie Camere del Lavoro. Questo per dire che a Taranto esisteva una certa tradizione imprenditoriale “dal basso”, impersonata nel secondo dopoguerra dalla STAT, poi diventata AMAT; mai il trasporto pubblico a Taranto fu così funzionale e redditizio come in quegli anni. Insomma, c’erano barlumi di alternativa produttiva e sociale alla Marina che altre città della Puglia non avevano; nel 1956 quel lungomare – che nel piano regolatore era destinato ad arrivare fino a Faro San Vito – viene deturpato dal grattacielo con un’operazione cominciata dalla Sinistra e conclusa dalla Destra di Monfredi. C’è poco da fare: abbiamo avuto la possibilità di impostare diversamente le linee di sviluppo della città, ma gli anni della prima cementificazione selvaggia sono antecedenti alla posa della prima pietra dell’Italsider.

Poi arriva l’Italsider…

Poi arriva l’Italsider con la sua corsa all’oro ed il suo carico di morti. Nel 1961 gli incidenti furono 4603, di cui 18 mortali; nel 1962 4930 incidenti di cui 28 mortali; nel 1963 11.989 incidenti di cui 23 mortali; l’anno dopo 13.600 incidenti di cui 32 mortali. La cosa curiosa è che la gente che moriva era dedita ad altri lavori e veniva letteralmente rastrellata in mezzo alla strada e buttata a lavorare senza alcuna preparazione e formazione; non si trattava neanche di ex-arsenalotti ed ex-tosini.
E’ chiaro che le assunzioni vere venivano gestite dai sindacati; io stesso ho visto gli elenchi di assunzione con nomi, cognomi e “padrino” di riferimento, secondo uno schema sempre e comunque diverso da realtà similari del Centro-Nord. Marina ed Italsider facevano prodotti finiti, senza creare un indotto.

La costruzione del Centro siderurgico avrebbe mutato per sempre la fisionomia della città e delle sue immediate vicinanze; l’ultimo piano regolatore, mi pare del 1954, non prevedeva la nascita di aree industriali nella zona occidentale, specie poi di quelle dimensioni. Nella zona rurale attorno a Taranto furono sradicati qualcosa come 20.000 alberi d’ulivo e un numero imprecisato di antiche masserie. Non ci fu nessuna voce discordante rispetto all’ “innesto a freddo” di questo gigante?

Non ci fu alcuna voce discordante al momento dell’avvio; i primi dissensi provennero da Antonio Rizzo quando l’ASI – con una prima previsione di espansione urbanistica fino a 500.000 abitanti – fornì le prime “licenze in bianco” all’Italsider senza piano regolatore approvato. Fu concesso all’Italsider di fare e prendere quello che volevano ma, con il raddoppio, cominciarono le prime voci di protesta. La grande crisi petrolifera e la crisi economica del 1974, con l’inizio della delocalizzazione, fecero si che in seguito, in Italia ma anche in Europa, non fosse più costruita un’industria di quelle dimensioni. D’altra parte la nostra fabbrica aveva già una storia ed una cultura produttiva che la rendeva rigida alle innovazioni tecnologiche immediatamente incorporate nelle fabbriche di nuova implementazione in altre parti del globo. L’ILVA era fatta per bramme d’acciaio.

Che cosa cambiò nel modo di vivere e nella cultura operaia con l’arrivo dell’Italsider?

Gli anni 60 furono gli anni dell’epopea, in cui si ritornava dalla Germania, da Brest… c’era un senso epico. Questo stabilimento enorme fu costruito in solo 5 anni, 1960 prima pietra, 1965 entrò in funzione il primo fumaiolo, fu quasi come la costruzione delle piramidi. Vi erano anche dei rituali nella fabbrica per cui ad esempio il novizio doveva fare il salto su un rigagnolo di fuoco per cui avvertiva un po di calore alle palle (sic!). Vi era tutto un rituale da seguire, il primo giorno si andava in fabbrica con la camicia bianca perfettamente stirata. Ma vi erano anche i lavoratori delle ditte che non solo non avevano gli spogliatoi, ma avevano una sola tuta da lavoro. C’era un po’ di discrimine, di differenza tra l’italsiderino e chi lavorava nell’appalto e questo saltava subito all’occhio per chi faceva attività politica e volantinava davanti alle portinerie. L’italsiderino iniziava a ostentare la sua posizione con l’acquisto del macchinone (e spesso di una moto), che non usava quasi mai ma che controllava a vista dal balcone, urlando improperi a chi vi si appoggiava soltanto. La seconda casa era il passo successivo. Lo spostamento dalla città vecchia alla città nuova dopo il matrimonio, con una casa acquistata al Borgo era uno di questi passaggi chiave e uno delle cause di spopolamento della città vecchia. A questo proposito un aneddoto che racconto nel mio ultimo libro è quello per cui tra i primi a creare aggregazione politica nella città vecchia negli anni 70 fu lotta continua. Nel 1975 ci fu il crollo di Vicolo Reale, e gli sfollati che via via aumentavano correvano alla Bestat ad occupare le case e c’era il paradosso per cui a Roma la figlia di Zevi, che stava in Lotta Continua, difendeva gli abitanti delle case storiche contro la speculazione, mentre a Taranto la stessa lotta Continua spingeva invece all’esodo verso le case protette, la Gescal ecc ecc. Qualcuno simulava addirittura la caduta di calcinacci nelle proprie abitazioni perchè la voce per la quale “ti davano la casa nuova” correva veloce. Era un sistema viziato dall’inizio, perchè il passaggio al Borgo fu la prima rimozione della città vecchia.

Lei ha citato il “dissenso” di Antonio Rizzo al piano regolatore industriale dell’ASI. Fu il solo episodio sintomatico di una mentalità “ambientalista” ante litteram all’epoca?

Possiamo provare a fare una cronistoria delle “lotte ambientali”. Nel 1968 il dott. Elio Muciaccia (PCI) in consiglio comunale espresse le sue preoccupazioni riguardo la tossicità dei fumi emessi dall’Italsider. Fu la prima volta in assoluto. Nel 1971 Italia Nostra (presieduta dallo stesso Rizzo) tenne in Piazza della Vittoria tiene una manifestazione in cui vengono esposti lenzuola annerite dai fumi. Il circolo “La routine” dei Tamburi raccolse ben 700 firme per portare l’attenzione sull’inquinamento ambientale e sulla salute pubblica. Nel 1972, il 28 Maggio, nella sede dell’ASI i tecnici dell’ ENEL presentano il progetto per una centrale termoelettrica di 1200 MW da costruire ad Avetrana con grave inquinamento da olio non desolforato. L’impegno di Italia Nostra e di Rizzo riuscì a bloccare questo progetto mentre in Italia scoppiava lo scandalo delle tangenti che riguardava anche il progetto tarantino. Nel 1978 Marcello Cometti della Gazzetta del Mezzoggiorno pubblicava una prima inchiesta sull’inquinamento e l’anno seguente furono installate 5 stazioni di rilevamento. Nel 1982 fu emessa la prima condanna contro il direttore dell’italsider per getto pericoloso di cose. Il sindaco Cannata inaugurò la tradizione per cui gli enti locali si sono poi sempre ritirati dalla parte civile nei processi. Fu creato questo Fondo d’Impatto Ambientale che non ha portato risultati tangibili.

Dopo la decisione di insediare il siderurgico secondo lei ci sono state occasioni in cui imprimere una svolta al modello di sviluppo locale?

Per me uno dei momenti chiave è il 1991, con la proposta di dismissioni; Di Fonzo mi propose di scrivere un articolo sul primo provvedimento Prodi, che prevedeva un programma di dismissione dell’area a caldo con constestuale piano di bonifica ventennale; questa cosa non venne presa in considerazione da nessuno, venne quasi nascosta, nessuno ne parlò. Questo progetto prendeva atto della non compatibilità dell’industria con la città. Tutti quelli che venivano in visita allo stabilimento non facevano altro che sottolineare questo aspetto: l’area a caldo di uno stabilimento del genere si costruiva dalla parte opposta rispetto alla città. A Taranto questo fu fatto per risparmiare qualche miliardo per qualche chilometro di nastri trasportatori e ciò fu possibile grazie alle “licenze in precario” concesse dalla amministrazione comunale dell’epoca, quelle per intenderci che si concedono per i circhi equestri e tutte quelle attività che si possono smobilitare in 24 ore.

Nel 2002 il braccio di ferro tra enti locali e proprietà raggiunge forse il suo momento apicale. Il sequestro dispositivo del sindaco e l’ordinanza del tribunale atta a ridurre i volumi produttivi delle batterie per motivi ambientali e sanitari fanno si che la dirigenza decida per la fermata completa della prima batteria e spingono i sindacati allo sciopero per difendere l’occupazione. Si arrivò al paradosso di non capire bene contro chi o cosa si stesse scioperando. Il ministro dell’industria del periodo, Marzano, fece valere pesantemente il ruolo di “polo siderurgico” di Taranto inserito in un contesto nazionale in cui Taranto produceva il 60% del fabbisogno d’acciaio con una bilancia commerciale già negativa per oltre il 30%. Fu una occasione persa persa per iniziare ad affrontare seriamente il problema?

Questo risponde alla logica padronale del ricatto occupazionale. Sarebbe utile leggere l’opera “Santa Giovanna dei Macelli” di Brecht… L’approccio al problema è paradossale, la stessa costruzione del San Raffaele è paradossale e tale viene vista anche all’esterno. Invece di puntare alla prevenzione si pensa a curare i danni causati.

Riguardo le ultime perizie della magistratura ritiene che sia la svolta?

Credo che, come per l’Eternit, se sono accertati dei reati bisogna andare a fondo. E’ l’essere sociale che determina la coscienza sociale e alla fine anche quella individuale. Siamo dentro un sistema di appartenenza. Il manager deve produrre e far incrementare il profitto, non dobbiamo meravigliarci. Non credo ci si possa aspettare che gli imprenditori diventino improvvisamente buoni, loro fanno il loro mestiere. Del resto la fabbrica l’hanno trovata così, l’hanno pagata e ora la utilizzano. Bisogna convincere il tizio che non è conveniente produrre così, magari mettendo in piedi se ce ne sarà la possibilità qualche class action dai risarcimenti stratosferici. Nel resto del mondo tra l’altro si produce a costi minori.
Penso però al porto di Taranto, il 40% delle azioni le detiene un miliardario cinese, il restante è dell’Evergreen, tailandese. Di Taranto non c’è nulla. Un mio ex alunno, ora direttore in Cina di Asian Time venne a Taranto per presentare un progetto con notevole disponibilità finanziarie per l’acquisizione del porto di Taranto, per farne uno snodo importante a livello mercantile. Bisognava però dragarne il fondo a causa dell’accumulo di materiale non trattato. E’ uno sforzo di bonifica enorme senza il quale il porto non potrà mai essere occasione di sviluppo. Ne parlò anche con gli enti locali, provincia e comune, ma non se n’è fatto più niente, né tanto meno qualcosa di questo progetto è mai venuto fuori sulla stampa. Del Porto se ne sente continuamente parlare ma oltre non si va. Lo stesso ammiraglio qualche giorno fa invitava a non farsi illusioni, poiché nessuna ditta di Taranto è in grado di poter svolgere questa operazione di dragaggio, bisognerà in ogni caso rivolgersi a ditte esterne. Oramai a Taranto vige la monocrazia dell’acciaio. Non sono mai maturate diversificazioni produttive. Io vedo per i prossimi anni grande lavoro per bonifiche e riparazioni urbane. Come ad esempio trovo inutili nuove opere di cementificazione della città che porteranno inevitabilmente anche un degrado nella qualità e quantità dei servizi, e di questo la colpa non si può darla certo all’ILVA. Quello che è incontrovertibile è che ci sarà sicuramente un innalzamento esponenziale della tensione dal punto di vista giudiziario. I Tavoli e le Vertenze lasciano il tempo che trovano e sono sostanzialmente inutili.

4 Comments

  1. Anonymous March 5, 2012 7:21 pm 

    Vorrei far presente che il periodo : “Non credo ci si possa aspettare che gli imprenditori diventino improvvisamente buoni, loro fanno il loro mestiere. Del resto la fabbrica l’hanno trovata così, l’hanno pagata e ora la utilizzano.”
    Infatti non è esatto accettarlo così com’è. Infatti devo ricordare che la fabbrica non è stata “pagata” ma ancora non si sa quanto il sig. Riva abbia sborsato per averla, pertanto forse si dovrebbe dire : ” è stata regalata”

  2. Anonymous March 6, 2012 10:02 am 

    L’Ilva è stata pagata, le critiche sono sempre ben accette e sono la base per migliorarsi, ma devono basarsi su fatti accertati. Si potrebbe dire magari che è stato pagato poco. In ogni caso ringrazio l’anonimo per avermi dato lo spunto per uno dei prossimi articoli. :-)

    Vincenzo

  3. Anonymous March 6, 2012 11:55 am 

    Io non sono tarantino, ma ne rimango sempre affezionato, perche’, a Taranto ho trascorso i piu’ bei miei anni della mia giovinezza, e ne sono molto contento. A mio avviso, Taranto, all’epoca, era la citta’ piu’ votata a diventare un polo turistico e non solo della Puglia. Essa e’ stata rovinata dalla cattiva politica degli uomini politici del tempo. Fa rabbia, vedere, a me, e non solo, che ormai vivo da oltre 40 anni fuori Taranto, ma in essa vivono molti miei parenti, vedere tutto cio’ che c’e’ di brutto, a livello di ambiente atmosferico e non solo. Mi scuso se ho annoiato qualcuno con tale sfogo.

  4. Anonymous March 6, 2012 7:19 pm 

    Mi dispiace dover contraddire l’amico Roberto, ma nei confronti del Piano regolatore dell’ASI si sviluppò un ampio movimento,di cui Italia Nostra fu sicuramente parte significativa, comprendente la CGIL, il PCI, associazioni democratiche, tra cui l’ARCI che organizzò un convegno nazionale a Taranto. Negli stessi anni a Taranto, con la giunta di sinistra, fu respinta l’ipotesi d’insediamento di una centrale carboelettrica che il Governo nazionale, col Ministro Beniamino Andreatta, dava per scontato. Il primo documento ufficiale del Comune di Taranto che pone con forza i problemi dell’inquinamento è del 1979. Non ricordo poi che il Comune di Taranto abbia ritirato le varie costituzioni di parte civile, accettate dall’allora Pretore Franco Sebastio, che portarono alla condanna, in diversi procedimenti, non solo dei dirigenti dell’Italsider, ma anche della Shell e della Cementir.
    Pinuccio Stea

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