Taranto e il falso trade off. Tra tutela dell’ambiente e sviluppo

di Paola Biasi

L’evoluzione del concetto di sviluppo nel tempo ha portato a destinare sempre maggiore attenzione ad aspetti di natura qualitativa che influenzano la qualità della vita degli individui. Affinché si possa parlare di sviluppo nel senso odierno del termine, la crescita della ricchezza deve essere accompagnata dal raggiungimento di obiettivi di tipo sociale e di tutela di standard ambientali. In questo senso si parla appunto di sviluppo sostenibile.

Se quindi è questo il benchmark a cui le politiche di sviluppo dovrebbero tendere, spesso il profilo ambientale e quello puramente economico sembrano essere in contraddizione: in questo senso il caso di Taranto è emblematico. Da un lato abbiamo infatti un problema di debolezza economica, aggravata (o forse addirittura causata, come vedremo in seguito) dalla dipendenza del territorio stesso dai grandi stabilimenti industriali dell’area, primo fra tutti Ilva. Dall’altro è oramai innegabile la drammaticità della situazione di degrado ambientale in cui versa la città, imputabile in gran parte alle realtà industriali appena citate. In un contesto di questo genere quindi, la protezione ambientale e della salute dei cittadini è facilmente (e tragicamente) inquadrata come un “lusso” che non ci si può permettere.

Non si può negare che la situazione in esame è estremamente complessa e che non ci sono facili soluzioni. Parte del problema però è che  troppo spesso le analisi “tecniche” sull’impatto economico del siderurgico a Taranto sono state effettuate con strumenti inadeguati, sicuramente incomplete, e infine non prive di condizionamenti, per così dire, ideologici.

Focalizzando l’attenzione sulla dimensione economica della questione, è ben noto che le attuali caratteristiche dell’economia tarantina sono direttamente imputabili alle scelte (ed errori) delle politiche di sviluppo meridionale degli anni ’50 e ’60.

Taranto avrebbe dovuto essere uno dei centri propulsori dello sviluppo del Sud, poiché lo shock indotto dalla creazione dello stabilimento siderurgico a partecipazione statale avrebbe trasformato l’area, vitalizzandone il tessuto industriale e imprenditoriale. Il potente impulso pubblico, le economie localizzative conseguenti, e il diffondersi a macchia d’olio dello stimolo avrebbero quindi fatto di Taranto (e delle altre aree toccate dalle politiche per poli) un traino per lo sviluppo dell’intero meridione.

In realtà i risultati raggiunti sono stati molto diversi rispetto a quelli auspicati, sia in termini di obiettivi di sviluppo nazionale, sia rispetto al caso specifico di Taranto.

Se per sviluppo intendiamo, infatti, un processo caratterizzato da una crescita economica endogena al territorio e spinta da una pluralità di centri di produzione di reddito, nel caso di Taranto i dati (indici di localizzazione delle attività economiche, densità imprenditoriale di attività extra agricole, unità di lavoro annuo per settore ecc) sembrano smentire l’esistenza di questo processo.

Analizzando le interazioni tra polo siderurgico e territorio nelle varie fasi della sua storia (insediamento, raddoppio, crisi e privatizzazione) si nota che gli effetti di spiazzamento del tessuto imprenditoriale nell’area sono stati particolarmente forti, anche a causa della dispersione dei benefici dell’intervento pubblico al di fuori del territorio interessato. In sostanza, la maggiore ricchezza generata da occupazione e redditi direttamente o indirettamente imputabili alla realtà industriale creata ex novo, si è trasformata certamente in maggiori consumi, generando quindi effetti moltiplicativi come sperato; tali effetti sono andati però a vantaggio di beni prodotti non in loco (fenomeno strettamente legato al fortissimo divario tra Nord e Sud del paese). Le realtà produttive locali hanno quindi finito per essere polverizzate, gettando così i presupposti di uno sviluppo incerto. Tale dinamica è piuttosto evidente anche rispetto alle relazioni tra impresa principale e fornitori (anch’essi esterni al territorio).

É curioso pensare che spesso i poli industriali nati in Italia in seguito all’intervento pubblico negli anni settanta sono stati definiti “cattedrali nel deserto”; nel caso specifico di Taranto però sembra quasi che, per quanto fosse depressa l’area prima di tali interventi, la “desertificazione” del territorio sia stata portata dalla “cattedrale” stessa, piuttosto che essere preesistente. D’altronde, non essendo state implementate azioni strategiche di preparazione a uno sviluppo endogeno al territorio prima della creazione del polo, non era difficile immaginare che questo non sarebbe stato in grado di approfittare dell’occasione offerta. Mancavano le condizioni strutturali affinché ciò potesse avvenire. I deboli effetti positivi dello shock sono stati così ampiamente sovrastati dagli effetti negativi, generando distorsioni evidentissime. La natura delle relazioni tra territorio e centro siderurgico delineatesi ai tempi dell’insediamento sembra immutata (con poche variazioni riguardanti le relazioni con i fornitori) anche dopo la privatizzazione avvenuta negli anni novanta. L’economia tarantina rimane dunque marcatamente dipendente dalle dinamiche del polo siderurgico. Ciò spiega perché non si può a cuor leggero affermare che esso è un elemento dello sviluppo locale. É indiscutibilmente una importante realtà produttiva, inietta reddito nel territorio, ma se parliamo di dinamiche di autentico sviluppo (strettamente economico), esso si configura piuttosto come un ostacolo. Non è quindi utile né corretto negare l’importanza, specialmente dal punto di vista occupazionale, del centro siderurgico. Tuttavia, in termini di indirizzi futuri per lo sviluppo dell’area, sembra quantomeno poco cauta l’analisi di chi ritiene che la grande impresa, nell’ambito generale del Meridione e ancor di più nel contesto tarantino, debba essere ancora fulcro e soggetto privilegiato delle strategie di stimolo all’economia. Il quadro descritto è piuttosto una aberrazione da sanare; non di certo un elemento su cui far leva per una rivitalizzazione di questo contesto.

Lo sviluppo distorto dell’area non è però l’unica (e nemmeno la più pesante) eredità degli errori delle politiche di sviluppo adottate nel caso tarantino. Già dagli anni Novanta infatti diversi studi OMS hanno fatto emergere pesanti criticità del quadro ambientale e sanitario della città chiaramente imputabili all’inquinamento.

Il dibattito, come sempre avviene in questi casi, ricade nei termini classici delle contrapposizioni tra ambientalismo radicale e visioni più pragmatiche: da un lato si focalizza l’attenzione sulla lesione del diritto a godere di un ambiente salubre provocato dall’inquinamento industriale; dall’altro si sottolinea l’importanza di tutelare una importante realtà produttiva in un territorio caratterizzato da un livello elevato di disoccupazione e scarse capacità di sviluppo autonomo. E qui torna il conflitto tragico di cui si parlava all’inizio.

Ciò che spesso non viene considerato è che l’inquinamento è a tutti gli effetti un’esternalità negativa: nella misura in cui comporta la degradazione di un bene che non ha mercato (l’ambiente), genera  dei costi difficilmente misurabili, ma sicuramente non “virtuali”.

É chiaro che il problema dell’inquinamento ha innanzitutto una rilevanza etica (sia per il valore dell’ambiente in sé, sia per le ricadute sul benessere dei cittadini dell’area). La quantificazione monetaria di questi impatti però può aiutare a chiarire e rendere più completa l’analisi degli elementi che “bloccano” o quantomeno contribuiscono in maniera indiretta a deprimere lo sviluppo del territorio.

A tal fine è possibile utilizzare metodologie consolidate e ampiamente adottate in ambito internazionale per le analisi costi-benefici delle politiche di miglioramento della qualità dell’aria. Senza addentrarmi nelle questioni metodologiche e tecniche di cui fornisco però i riferimenti[1], ritengo utile fornire sinteticamente dei dati, quantificati secondo tali standard metodologici. Per quanto limitati alla considerazione di una sola matrice ambientale e di un solo inquinante, e circoscritti alla sola dimensione sanitaria del problema,  questi valori forniscono un’idea della dimensione dell’impatto economico dell’inquinamento che, come già detto, non si tiene spesso in considerazione per motivazioni sia tecniche che ideologiche.

Il valore medio annuo di costi legati all’inquinamento atmosferico da PM10 per il periodo tra il 2000 e il 2005, ammonta a oltre i 284 milioni di euro. Questo dato, per come è stata costruita l’analisi da me condotta, può essere interpretato come il beneficio annuale derivante da un miglioramento della qualità dell’aria nel periodo analizzato, se la concentrazione di PM10 nell’aria avesse rispettato i limiti indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come valore soglia di tutela della salute umana. Questa soglia è quella normalmente utilizzata come valore di riferimento per la valutazione dei danni da inquinamento. A livello pro-capite, ogni cittadino di Taranto sopporta (teoricamente) un costo di 1.400 euro annui circa per i danni subiti dall’inquinamento. Si tratta sicuramente di cifre notevoli e che, va ricordato, sono in grado di cogliere solo una parte molto limitata degli impatti dell’inquinamento (atmosferico e generale) della città. Pur non disponendo di dati che ci consentano di definire il peso specifico dell’Ilva sul totale delle emissioni di PM10 nella città di Taranto (considerate tutte le fonti, comrpese il trasporto stradale), il ruolo dello stabilimento è certamente rilevante: su un totale di 11.805 kg/anno emessi nel 2006 dalle imprese con obbligo di certificazione INES localizzate nell’aria industriale di Taranto, ben 11.463 kg/anno sono emessi dall’Ilva.

La presenza di esternalità ambientali di questa portata, insieme alla debolezza generale dell’economia del territorio indotta, tra le altre cause, proprio dalla presenza di complessi industriali che la legano a uno sviluppo “incompleto”, fanno pensare che una vera via di uscita dalla situazione di dipendenza e degrado possa essere ricercata  solo in strade lontane da quelle percorse finora, cambiando completamente la concezione di ciò che è auspicabile quando si parla di sviluppo. Taranto è,  tristemente, un fertile caso di analisi delle interazioni tra ambiente, qualità della vita, produzione di ricchezza (quando c’è) e reale benessere dei cittadini. E, a mio parere, la sua valenza non è affatto legata a una dimensione locale. Taranto è la prova che sposare una visione del benessere concentrata sulla sola dimensione economica è semplicemente un modo per nascondere nodi che prima o poi verranno al pettine, con tutta la loro violenza e con tutto il loro portato di ingiustizia sociale (basti pensare al modo sorprendentemente classista con cui le ricadute sulla salute colpiscono la città).

Più a livello di suggestione che in termini di analisi,  credo che fare di Taranto nuovamente un “polo di sviluppo”, stavolta però della ricerca e della protezione ambientale, può essere un modo di trasformare una debolezza del territorio in un punto di forza. Investire risorse per, almeno, mitigare il degrado è necessario e urgente. Fare di questa necessità un elemento di vitalità economica “di qualità” per il territorio, non è facile, ma nemmeno impossibile.

Certamente finché la questione ambientale non sarà affrontata nella giusta prospettiva, cioè come parte integrante dei problemi e delle soluzioni da sperimentare nell’area, poco o nulla potrà cambiare rispetto al passato.




[1] Attraverso il metodo della Impact Pathways Approach e i valori monetari stimati nell’ambito del progetto ExternE , e sulla base dei dati di mortalità dell’analisi MISA-2 e Epiair, è stato calcolato il danno imputabile all’inquinamento in termini di unità fisiche per una lista selezionata di end-points sanitari. Successivamente tali risultati sono stati convertiti in valori monetari con il metodo del benefit-transfer. L’intero articolo è basato sul mio lavoro di tesi dal titolo “Il costo dello sviluppo: l’impatto sanitario del IV Centro siderurgico di Taranto”, Facoltà di Economia, Università degli studi di Firenze. Rimando ad esso per i  riferimenti sull’analisi delle relazioni tra territorio e polo siderurgico, nonché sulla metodologia utilizzata per la stima del danno sanitario ed economico, di cui riporto solo i risultati sintetici.

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