I meridionali non hanno cultura industriale*

Quel che resta oggi dell'acciaieria di Mongiana

di Salvatore Romeo (’85)

“Se sei di Mongiana, ogni giorno vedi cos’eri e a cosa sei stato ridotto”.

Quando Garibaldi, con a seguito le mille camicie rosse, sbarcò nei pressi di Marsala nel lontano 1860, qualcuno non esultò. Troppa la paura che uno straniero venisse non a liberare, ma a conquistare terre già conquistate; insomma, in molti temevano un mero un cambio di “proprietà” e non una ridistribuzione. La storia ci insegna che i riluttanti della liberazione non si sono scostati molto dalla realtà. Tra i diversi soprusi che le truppe garibaldine prima e lo stato piemontese poi hanno inflitto al territorio meridionale, è utile soffermarsi sulla chiusura della più grande acciaieria “italiana” di quel tempo: la fabbrica d’armi sita a Mongiana, piccolo paese di quella perla grezza che è la Calabria.

Mongiana (ora in provincia di Vibo Valentia, centro Calabria) è sulle Serre calabresi, luoghi dove la straordinaria bellezza dei monti deve fronteggiare quotidianamente sia il pericolo che le frane li distrugga come castelli di sabbia, sia l’isolamento “forzato” che la mancanza di una rete stradale adeguata inevitabilmente crea. Era inoltre il posto ideale dove far sorgere un’acciaieria: nelle profonde ferite dei monti limitrofi era depositata in quantità la limonite, un minerale naturalmente ricco di ferro. Mongiana, come spesso accade, nasce come quartiere dormitorio della “fabbrica”: dapprima case sparse, a pungolare lo spazio immenso che separava l’acciaieria dal bosco; successivamente divenne, con l’aumento dei salari e delle garanzie occupazionali, una vera e propria cittadina che, nel periodo di massima espansione, accoglieva quasi tremila persone, divise tra mongianesi e tecnici stranieri. La presenza degli ingegneri e “manager” stranieri (soprattutto inglesi, tedeschi e francesi), manifestava il grado di eccellenza nella qualità del prodotto che manifestava l’acciaio di Mongiana. Il successo del suddetto acciaio era motivato dall’efficienza (con la dovuta contestualizzazione rispetto al periodo storico in questione) che il processo produttivo locale era faticosamente riuscito a raggiungere. Mentre nel resto d’Italia (principalmente in Liguria, Piemonte e Val D’Aosta) il numero di addetti del settore siderurgico pareggiava complessivamente il numero di operai degli stabilimenti di Mongiana e Pietrarsa, la qualità dell’acciaio del “nord” non era in grado di competere con quello calabrese. Il segreto del successo dell’acciaieria “duosiciliana” risiedeva anche negli elevati investimenti ed elevate commesse che i Borbone concentrarono nella zona; il loro obiettivo era di trasformare in loco dei prodotti di base meridionali. Grazie all’acciaio dello stabilimento di Mongiana (e di pochi altri paesi vicini), il regno delle due Sicilie era industrialmente autonomo.

Ma l’Italia venne e portò via anche l’acciaio mongianese. L’acciaieria venne chiusa con la scusa che il processo produttivo utilizzato nell’impianto di Mongiano era ormai obsoleto. I tecnici dell’epoca dichiararono che le tecniche produttive “moderne” dovessero prevedere la vicinanza degli impianti siderurgici al mare. Non fu molto chiaro il perché lo stabilimento della “Rurh calabrese” venne ricollocato a Terni, città ben più distante dal mare. Basta entrare nel piccolo paese, ormai quasi-fantasma, ridotto, come molti altri della zona, a meno di mille abitanti principalmente anziani, e chiedere cosa i “vecchi” (nell’accezione di memoria storica) pensino della figura di Garibaldi. Per loro, l’aura del condottiero liberatore risulta sfocata, oscurata dall’ immagine dell’usurpatore dell’anima del paese. Si  perché, come scrive Aprile, “il mondo dei mongianesi nacque e fu, finché durò, solo industriale, siderurgico, cadenzato sui tempi delle macchine e dei forni[…], con un linguaggio che dai luoghi di lavoro entrava nelle case”. E togliendo l’acciaieria a Mongiana, “fu tolta la condizione essenziale della sopravvivenza”. “Le Serre” continua il giornalista, “erano “l’ambiente” e la siderurgia il “mondo”; pur di non perdere il secondo che li rendeva uomini, rinunciarono al primo”. E ovviamente la comunità depredata dell’unica fonte di lavoro certa e sicura, ottima anche dal punto di vista della “riconoscibilità internazionale”, ha assistito impotente all’esodo in massa della forza lavoro del paese (soprattutto uomini e ragazzi). Ciò che rimase (e che è rimasto fino ai nostri giorni), fu un tentativo di reinventarsi una nuova ricchezza, intesa sia dal punto di vista economico che, parimenti, dall’accezione di “comunità”. Sorsero delle piccole aziende di coltivazione ed essicamento dei funghi ed una sede della guardia forestale calabrese; in toto si ottennero poche decine di posti di lavoro. Oggi la vera Mongiana si trova al dì fuori dei confini calabresi ed addirittura nazionali, “sventrata” da cicliche e devastanti emigrazioni.

Tutto ciò non può non riportare in mente la situazione attuale della nostra città dove, sullo sfondo di una campagna elettorale mai così ricca di candidati (o presunti tali), viene combattuta una “crociata” nei confronti della cultura egemone in città negli ultimi cinquanta anni. Il motivo del contendere è noto a tutti. La chiusura dell’impianto siderurgico cittadino, che con vari alti e bassi in funzione delle congiunture economiche internazionali, garantisce un livello di occupazione all’interno di un contesto in profonda crisi. Questa è la tesi portata avanti dalle varie associazioni ecologiste presenti sul territorio ionico. Dall’altra parte, ovvero dalla parte della classe politica attualmente sullo scranno comunale,  ad onor del vero non è molto chiara la linea politica da “sfoggiare” su tale argomento (sarà mica l’elevata eterogeneità dei partiti che compongono la lista? mah.). Un tentativo di recuperare in “zona Cesarini” (per usare un eufemismo calcistico) anni di immobilismo sulle tematiche ambientali, sembra non convincere del tutto gli spaesati cittadini-elettori tarantini. Ma guardando all’esempio (con le dovute eccezioni) di Mongiana, una chiusura totale dell’impianto siderurgico tarantino, potrebbe portare ad una seconda drammatica emigrazione della forza lavoro (la prima è quella dei tanti studenti, come me, che costretti o meno abbandonano i seni materni e quelli tarantini, per lidi più accoglienti), riducendo ancor più la “grandezza” (numerica e non) di una città in agonia.

Qual è la situazione?, si starà chiedendo qualcuno. Soluzioni ed alternative potrebbero essercene molte. A mio parere, si dovrebbero tracciare quei sentieri che giungono ad un miglioramento delle condizioni ambientali, salvando quella che è la cultura egemone tarantina da oltre mezzo secolo e dunque salvando migliaia posti di lavoro e quindi la sopravvivenza della città.

O forse, chi ipotizza la chiusura dell’impianto siderurgico, mira ad uno svuotamento di Taranto tale da renderli padroni di una città fantasma?



*liberamente rielaborato dal capitolo “I meridionali non hanno cultura meridonale” tratto dal libro “Terroni” di Pino Aprile.

3 Comments

  1. Anonymous April 16, 2012 11:10 am 

    Ho letto il tuo articolo e non sono d’accordo con l’analisi che fai…di certo è un processo lungo, qualora la grande industria dovesse chiudere, ma il passo va fatto. Non siamo diversi da Genova, la città è già svuotata delle menti più brillanti (mi riferisco agli studenti laureati che vanno a fare la specialistica fuori, perché qui non c’è, oppure a quelli che iniziano proprio il percorso universitario fuori). Chi rimane a Taranto? Chi si accontenta di un lavoro massacrante, pur di avere lo stipendio. A discapito però della salute propria e dei propri cari. La domanda è: vogliamo ancora morire o finalmente ci rimbocchiamo le maniche e pensiamo a nuovi modelli economici che possano dar lavoro a tutti? Operai, studenti laureati e non, mamme di famiglia ecc ecc…

  2. Anonymous April 16, 2012 11:35 am 

    sono d’accordo con lei, nell’affermare che il processo di chiusura e dismissione degli impianti siderurgici di Taranto, risulti difficile e complesso e come tale richieda tanto tempo per essere posto in atto. Vorrei adesso domandarle quali prospettive avrebbero le migliaia di operai che, ritrovatesi senza un impiego, dovrebbero essere reimpiegate nei settori lavorativi paventati (turismo, industria sostenibile, etc.) essendo questi caratterizzati da una sintomatica incertezza (sia in fase di start-up, sia a regime) in termini di fatturato e dunque di potenzialità occupazionale. Su questo argomento, spesso, si propongono delle soluzioni superficiali. E questo é un peccato.

  3. Anonymous April 26, 2012 4:34 pm 

    La città si sta già svuotando: c’è chi preferisce o è costretto ad emigrare( non solo per emotivi economici ma anche per motivi di salute). La chiusura dell’area a caldo è inevitabile per salvaguardare la vita degli operai e della città tutta. Studi scientifici lo dimostrano: a Taranto l’ambiente di vita è insalubre, non compatibile con la vita!
    Dobbiamo pretendere subito tavoli e conferenze dei servizi per programmare le dismissioni dell’area a caldo, le bonifiche e la riconversione economica con attività davvero ecosostenibili .

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