It Ain’t Me Babe – un blues su Bob Dylan

di Morris Franchini

Per una volta voglio scrivere delle mie passioni, di quello che è la mia libertà e la mia prigione. Basta parlare di elezioni, ILVA, problemi vari…voglio essere sempre nel mondo ma non più del mondo…voglio scrivere di Mr. Robert Allen Zimmerman: Bob Dylan. A questo punto, “ipocrita lettore, mio simile e fratello”, ti chiederai il perché di questa mia scelta. Beh, effettivamente la risposta è tra le più banali ma credo che riguardi l’essere umano e  un viaggio da fare dentro e fuori di esso. Dunque, Bob Dylan è nato a Duluth (un piccolo paese del Minnesota – U.S.A.) il 24 maggio 1941, ed è un cantautore e compositore statunitense. Distintosi anche come scrittore, poeta, pittore, attore e conduttore radiofonico, è una delle più importanti figure degli ultimi cinquant’anni nel campo musicale, in quello della cultura popolare e della letteratura. Fino a qui nulla di nuovo. Difficile dire chi sia Bob Dylan oggi – difficile dire chi sia stato Bob Dylan in questi ultimi cinquant’anni, da quando, nel 1961, è scappato dal college per fare visita al suo idolo musicale Woody Guthrie. Difficile dire che cosa sia oggi l’ “America”, quanto sia rimasto dell’ “America” che Dylan ha iniziato a cantare negli anni sessanta. Difficile dire in che misura Dylan abbia lasciato traccia nel mondo. Dylan, ormai 71 anni, è contemporaneamente solo, sopravvissuto a scene e personaggi di più di quarant’anni fa e circondato da umanità varia, che ancora scalpita, grida, ama e fallisce; di definitivo c’è la sua grandezza di cantastorie, la sua capacità di trascinare nella tempesta quello che sa fare meglio: giocare con le radici della musica americana (country, blues, folk irlandese, spiritual), descrivere il mondo che vede accalcarsi ai bordi della sua strada: la nascita sociale dell’America, la vita di paese, i drammi familiari, la gioia di cavalcare liberi. Difficile dire dove sia posto il termine di questa strada. Dubito che qualcuno possa realmente capire il funzionamento della mente di Dylan, lui è su un’altro pianeta, troppo avanti e troppo distante da noi. Dopo oceani d’inchiostro Dylan è ancora un mistero, le sue parole e la sua mente sono state sezionate invano in tutti i modi possibili, migliaia di interpretazioni diverse sono state date agli stessi fatti, tutto è rimasto un mistero. Einstein fu capito seriamente dopo più di settant’anni dall’enunciazione della famosa formula E=MC2, ma Dylan forse è più difficile, o forse più facile, certamente agisce su un terreno diverso e le sue “previsioni” vanno verificate nel tempo, quando parlava di piogge acide la gente rideva, oggi non ride più. Un essere umano dalle tante identità, dal quale è quasi impossibile discernere la sua vera identità dei personaggi dalla maschera che egli indossa, di separare elementi reali da quelli della finzione, dell’illusione, della visione. La sua produzione musicale, letteraria, pittorica e cinematografica è un complicato e pressoché irrisolvibile gioco di specchi. Profeta, cantastorie, contestatore, anticonformista, folle, imbroglione, cinico ed individualista, genio assoluto, un ibrido tra un cantante folk bianco e un bluesman che ha venduto la sua anima al diavolo, proprio come Robert Johnson[1]. Dylan è un fuorilegge della canzone. Dylan è la fotografia rigorosa del calare degli anni ‘70, quando le illusioni e le utopie di un mondo migliore si infrangevano definitivamente sul campo di battaglia di una guerra infinita e inutile. Ma è la musica, allora, a risollevare le sorti di un’umanità stanca, a dar voce ai poveri e ai diseredati. L’errore maggiore, al quale ci hanno abituato sin da piccoli, è quello di dare e definire un “nome-significato” a tutte le cose. In realtà è, ormai, un meccanismo eterno al quale sembra che non ci si può sottrarre. Ma per determinate cose, possiamo veramente liberarci da questo meccanismo, specialmente per quella cosa che viene chiamata “poesia”. Penso che sia tempo per abbandonare i clichè estetici e parlare di attività intellettuali. La “poesia”, in realtà, non sappiamo cosa sia veramente: è un ammasso di parole sapientemente collegate tra loro? Sì, ma come e quando viene definita tale? Anche il mio articolo potrebbe essere “poesia”… . Dylan è così, non lo puoi ingabbiare in un ruolo o in un altro. Così, come ogni persona che dovrebbe essere veramente libera non può essere identificato in base a quello che fa e a quello che crede e dice. Non puoi definire un essere umano in base, ad esempio, al partito politico nel quale potrebbe militare o alla religione che dice di professare. Dylan affermò nel 1964 – e da allora questa è la sua “non-filosofia” – << Non voglio far parte di nessuna organizzazione. Quella gente era come tutta la gente. Sono incatenati a quello che stanno facendo. Soltanto cercano di aggiungere morale e grandi azioni alle loro catene. Devono conservare le loro posizioni. Non ho nulla a che fare con loro e la gente che frequento non ha nulla a che fare con loro>>. Dylan non è un monumento vivente, la sua esigenza di non voler venire bloccato come una farfalla trafitta da uno spillo viene ribadita in quello che si può definire il suo vero e proprio “manifesto” ovvero “Maggie’s Farm”: <<Voglio essere quello che sono>>; era il 25 Luglio 1965 quando, al Folk Festival di Newport, Dylan si presenta sul palco per la prima volta accompagnato da un gruppo (la Paul Butterfield Band), attacca con una violenta-distorta “Maggie’s Farm” ed esegue i pezzi elettrici della sua ultima produzione. Il pubblico lo fischia e Dylan esce (secondo alcuni in lacrime) dal palco al culmine della contestazione per rientrare in scena dopo vari minuti convinto dagli organizzatori ad eseguire qualche canzone da solo con la chitarra acustica e l’armonica (cantando una malinconica ed amara “It’s all over now, baby blue”). Quella era la definitiva rottura con il pubblico dei puristi del folk e di credeva in lui come il portavoce di una generazione, come il moschettiere dei diritti civili, come il martire della contestazione e della rivoluzione. Sempre del 1965 la canzone “Subterranean Homesick Blues” confermò il suo vero e proprio essere col verso <<Non c’è bisogno di un Weatherman / per sapere da che parte tira il vento>>, dove la parola “Weatherman” non voleva dire soltanto “meteorologo” ma si riferiva ad un gruppo politico di sinistra radicale nella scena del dissenso americano. Dunque, un essere umano che è sempre in costante ricerca di se stesso, che ha raccontato e racconta del suo e del mondo degli altri. La coscienza, l’unica raggiunta, di capire in quale triste divertente teatro ci troviamo e ci agitiamo. Di capire che “la risposta è soffiare nel vento” anche se è di tempesta, di esserne parte attiva o no e non esserne trasportati dalle tante correnti d’aria. La cosiddetta “realtà” potrebbe essere multiforme. Dylan si diverte, sorridendo sardonicamente  ai “sempre convinti”, a chi colora se stesso e le cose sempre con gli stessi colori, a chi crede fermamente mantenendo un vessillo, a chi si dice di “sinistra”-di “destra”-di “centro” e ai bacchettoni d’ogni età e tipo, giocando a fare il baro da poker. Non esistono verità precostituite, precotte e preconfezionate. La dimensione interna dell’essere umano è, forse, la ricerca la verità e il cercarla è di gran lunga più importante del risultato a cui si giunge. Facendo bene e sbagliando allo stesso tempo, accettandosi così come siamo e come potremmo diventare. È quanto mai geniale l’epitaffio (scritto nel suo romanzo “Tarantula”) scritto da Dylan che si conclude così: <<(…) Qui giace Bob Dylan / Distrutto dalla cortesia di Vienna / Che ora pretenderà di averlo inventato / La gente cool adesso / Può scrivere Fughe su di lui / E Cupido adesso può scalciare sulla sua lampada a kerosene / Bob Dylan ucciso da un Edipo scartato / Che è andato / in giro / A esaminare un fantasma / E ha scoperto che / Anche il fantasma / Non era una persona soltanto[2]>>.



[1] Robert Johnson nacque nel 1911 sulle rive del Mississippi. Qui cominciò a suonare, apprendendo i primi rudimenti da due bluesmen locali, Charlie Patton e Willie Brown. Si sposò all’età di diciassette anni, ma la moglie morì di parto l’anno successivo. Dopo questo evento tragico Johnson si immerse sempre più nella musica, prendendo lezioni da un musicista arrivato a Robinsonville, Son House. Johnson non era affatto un prodigio, anzi sembra che non avesse alcuna particolare dote musicale. In seguito smise il suo lavoro di contadino e prese a girovagare. Finì a Hazelhurst, Mississippi, la sua città natale, alla ricerca del vero padre, Noah Webster. Non riuscì a rintracciarlo ma trovò, invece, il suo vero mentore, uno sconosciuto bluesman di nome Ike Zinneman. Zinneman amava raccontare che aveva imparato a suonare la chitarra di notte, al cimitero, tra le tombe, tanto che alcuni lo credevano Satana. Chiunque fosse, Zinneman fu un ottimo maestro per Johnson. Dopo un anno Robert ritornò a Robinsonville dove Son House e gli altri musicisti rimasero molto stupiti del suo grande miglioramento. Da quel momento in poi Johnson suonò continuamente per il resto della sua vita, viaggiando per il Sud e costruendosi rapidamente una solida reputazione di musicista, gran bevitore e donnaiolo. La sua vita, tormentata dalle donne, dall’alcool e dalla povertà, si spense di colpo nel 1938, all’età di 27 anni, in circostanze non troppo chiare.

 

[2] Traduzione di Fernanda Pivano


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3 Comments

  1. Mina February 12, 2013 4:38 am 

    Cercala nel mare,
    nella bifida lingua dell’ aspide,
    nel roseo riso della rosa,
    cerca…
    nel soffio del vento,
    nell’ anfratto,
    nella pozzanghera.
    Dell’ uomo l’ unica verità
    è
    ricercarla.

  2. StJamesHotel February 12, 2013 8:28 pm 

    Solo una precisazione storica:
    Al di là del significato che Dylan intenda assegnare a Weatherman, il gruppo politico di cui parli prese il nome proprio dalla canzone e non al contrario come traspare dalle tue parole. Mi sembra una ulteriore prova del peso politico e sociale del Nostro! Qui trovi qualche info: http://it.wikipedia.org/wiki/Weather_Underground

    • Morris February 16, 2013 1:08 am 

      …touché et chapeau! ;-)

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