Anatomia delle nuvole

di Francesco Intini

“Voglio andar via / i piedi chiedono dove / ma via!”.
Baglioni mi sussurra queste parole nelle cuffiette alla fermata dell’autobus, poco lontano dalla mia scuola. Aspetto il 3, quello per i Tamburi.
Come ogni giorno ho lasciato che il traffico dell’ora di pranzo si smaltisse. Non voglio stare con tanta gente in pullman , mi sentirei osservata. Sono le 14, l’orario perfetto per provare a fare una chiacchierata con sè stessi su un bus cittadino.
Oggi ho voglia di ascoltarmi, sola e in silenzio. Non cederò il posto a qualche anziano o donna incinta, devo sfruttare questi pochi minuti di pace. Iniziamo dalle domande stupide, ma sul “Come va?” mi blocco sempre. “Ile, come va?” mi ripeto. Nulla. Non trovo risposta ad una mia stessa domanda. Sto impazzendo, forse.Il mio cervello si spegne, come se si rifiutasse di rispondere. Capisce che è troppo pericoloso.
“Non fare domande!” dice sempre mia madre. La odio.
Dovrò abituarmi a vivere così? In silenzio? Come potrò sapere se la mia vita va bene o va male? C’è un modo? Lo voglio sapere, qui e subito!
Ho ancora poco tempo, abbiamo appena superato la stazione.
Forse non rispondo perché le risposta la ho già. Ho paura di farla diventare concreta, viva. Le nostre riflessioni scomode, spesso, è meglio che mantengano contorni sfocati e indefiniti, devono appartenerci ma con distacco. So come sto, ma non posso ammetterlo, perché il destino ha già scelto per me.
Decido di scendere una fermata dopo quella abituale perché oggi ho più bisogno di tempo e spazio per completare i miei assurdi ragionamenti.D’un tratto, l’illuminazione!Se voglio capire la mia vita, devo capire me stesso e i miei sentimenti, analizzando ogni attimo sparso della mia quotidianità.
Mi guardo intorno e cerco di guardare tutto con altri occhi.
Occhi da straniera.
Ma non ci riesco, è troppo difficile. Vedo cose che ormai sono parte di me, non si possono cancellare. Purtroppo.
Vedo la rassegnazione negli occhi della gente, e mi chiedo se quegli occhi siano semplicemente lo specchio della mia anima.
Vedo , come ogni giorno, quel camino altissimo lungo Via Orsini. Il camino E312. Quando lo guardo, non so per quale motivo, ripenso a Birkenau e a quel viaggio di 2 anni fa, in 2° superiore. Sconvolgente. Penso a quanta violenza sia fuoriuscita da entrambi quei camini. Violenza che uccide in modi e tempi diversi, ma pur sempre di violenza si tratta.
Alzo gli occhi al cielo, come spesso mi capita di fare quando sono triste e pensierosa. Mi aiuta.
Dietro quelle nuvole marroni, affogate in un mare di veleni, lui mi guarda. O almeno spero.
Gli chiedo di darmi la forza per salire a casa e affrontare ancora una volta la pazzia di mia madre. Ci riesco. Salgo le scale a due a due, decido che oggi devo solo continuare a pensare, ignorare quella donna e capire in che direzione andrà la mia vita.
Tutti questi bei pensieri si interrompono appena giunta sul pianerottolo. La porta è aperta, come se qualcuno mi stesse aspettando.
Questo assordante silenzio mi mette paura.
Entro in cucina e vedo nonna Lucia seduta al tavolo impegnata a terminare il suo piatto di penne al sugo. Strano. Non ho neppure il tempo di salutarla, mi zittisce poggiandosi l’indice sulle labbra. Non lo ha mai fatto, così come non è mai accaduto che venisse a pranzare nella casa dove io e mamma siamo venute ad abitare. La sua presenza mi tranquillizza , ma d’improvviso un pensiero mi scuote. Un brivido corre lungo la mia schiena: “spero sia morta”. Tento di chiedere spiegazioni alla nonna ma lei resta impassibile come mai prima d’ora.
Inizio a pensare che quel desiderio possa diventare davvero realtà: liberarmi per sempre di mia madre!
I miei diabolici pensieri vengono interrotti da un alternarsi di passi proveniente dal fondo del corridoio. Sono mia madre e mio nonno. Lui scuote la testa in direzione della nonna, ma sembra che ce l’abbia anche con me. Lei, invece, abbozza quel sorriso beffardo che tanto mi mette paura, come se fosse in grado di capire cosa balenasse nella mia mente fino a 10 secondi fa.
Nonno fa segno di andarsene e di lasciare lì quel piatto di pasta che nonna Lucia nervosamente tentava di mangiare.
Vorrei andarmene con loro, ma davvero non capisco. Perché erano qui? Sono venuti o sono stati chiamati? Perché nonno faceva segno di no con la testa?
Sento la porta di casa chiudersi lentamente alle mie spalle, ma quel momento di meraviglioso silenzio viene frantumato dal rumore del piatto lanciato nel lavandino.
Mia madre si avvicina verso di me, non ha nulla fra le mani ma mi fa paura ugualmente.
Muovo i capelli per mostrarle lo zigomo sfregiato dalla mia cintura borchiata, ormai diventata un’arma nelle mani di una pazza.
Si avvicina ancora. Le faccio vedere i segni sul collo, sulle cosce, sul bacino ; le dimostro che non ho cellulare né iPod, si è già presa tutto.
Piango, in silenzio, come sono abituata a fare.
Lei inizia ad urlare : “Perché? Perché? So che sei stata tu! Perché?” . Non la capisco. Vorrei poterle dire che non so di cosa parla ma le cinghiate sul viso impediscono ai muscoli facciali di muoversi.
Alzo gli occhi al cielo, sto cercando lui. Per un momento riesco a non sentire il dolore, capisco cosa fare.
Da domani nulla sarà più come prima.
Sono Giulio, ho 76 anni e faccio il nonno a tempo pieno.
Operaio Ilva fino a 12 anni fa, ho goduto del relax della vita da pensionato fino a 2 anni e mezzo fa, quando mi fu diagnosticato un tumore al pancreas.
Qui a Taranto siamo abituati, sappiamo che il tumore prima o poi arriva e che a 76 anni bisogna già ritenersi fortunati di aver vissuto così a lungo.
Posso dire di aver ritrovato nella malattia i bisogni veri : l’affetto, l’amore , la comprensione .
È stata un occasione per avvicinarmi alla vita come mai avevo fatto prima, e la presenza di mia moglie Lucia è stata fondamentale nel processo di rinconciliazione col mondo che dopo la scoperta del tumore sembrava impossibile.
Decidemmo dunque di dedicarci, nei pochi mesi di vita che mi sarebbero rimasti, alla creatura che più di tutte aveva bisogno del nostro affetto : Ilenia, nostra nipote.
Ma dovevamo convincere la madre.
Ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Era un Martedì d’Autunno, una di quelle giornate a cui non si riesce mai a trovare un senso. Un Martedì cupo e svogliato.
Ricordo distintamente l’enorme quantità di fumo sprigionata dalle ciminiere, e non potetti fare a meno di pensare a mio figlio.
Alessandro è una vittima dell’Ilva, come diventerò presto anch’io. Stava lavorando al rifacimento di una cokeria, quando di colpo il ponteggio crollò e si ritrovò a fare un volo di 15 metri. Morto sul colpo. Lasciò una moglie ed una figlia, Ilenia, che non è mai riuscita a darsi pace.
Discutemmo per oltre 2 ore con sua madre, conoscevamo la sua situazione. Non aveva un lavoro, era depressa e non voleva che le fosse tolto il suo unico amore.
La chiamava amore, nonostante la picchiasse tutti i giorni. Cinghiate su collo, viso, gambe e bacino.
Dopo un’ora di colloquio mia moglie si allontanò perché iniziava a non sentirsi bene. Per lei era semplicemente pazza.
Io invece cercai di parlarci, di farle capire come la perdita di una persona cara sia un episodio che dovrebbe avvicinarci alla vita, ma che nel suo caso sembra aver avuto l’effetto contrario.
Ribatteva alle mie argomentazioni con una lucidità spaventosa. Mi giocai l’ultima carta, quella più triste ma anche quella più vera : “ Sai che quando Ilenia alza gli occhi al cielo sta cercando sua padre? Non crede in Dio, ma crede in suo padre”.
“No, non lo sapevo.”
Mi sentii morire , mi aveva demolito. Ha cancellato il ricordo di suo marito in una frase di una crudeltà tremenda. Mi chiedevo come Alessandro avesse potuto sposare quella donna.
Ricordo però che al termine della conversazione le strappai una promessa: non le avrebbe più dovuto alzare le mani, altrimenti ci saremmo rivolti agli organi competenti.
“D’accordo” disse, evidentemente spaventata dalla minaccia.
Tornando in cucina, vidi Ilenia e mia moglie sedute al tavolo in religioso silenzio. Attendevano una risposta, e mi chiedevo se la ragazza sapesse qualcosa della nostra proposta di farla vivere con noi o fosse all’oscuro di tutto. Mi guardava speranzosa, come se potessi portarla via da lì.
Scossi il capo e feci segno di andarcene in fretta. Non salutai neanche Ilenia.
Rimanemmo qualche minuto sul pianerottolo per verificare se quella promessa sarebbe stata rispettata, ma bastarono pochi secondi per distinguere il nitidisssimo rumore della cinghia sul suo viso.
Non avevamo scelta, il giorno dopo ci saremmo recati alla caserma dei CC.
Quella notte non dormii, ricordo che avevo addirittura timore di morire nel sonno, per questo rimasi sveglio a pensare.
Pensai per ore, fino a quando scendemmo le scale per recarci in caserma.
Controllai, come ogni mattina, la cassetta della posta. C’era una lettera, scritta a mano.
Sul dorso c’era scritto “PER I NONNI”. La lessi tutta d’un fiato. Svenni. Era ormai tardi.

 

Nonni, vi chiedo scusa.

Non pretendo di essere capita, ma almeno di essere ascoltata, e voi siete gli unici a farlo.

Vi chiedo scusa perché finora avete badato ai miei sussurri, e ora vi toccherà sentire un urlo. Devastante

Grido la libertà che ormai ho perso.

Avrei chiesto solo qualche grammo di normalità in più.

Una famiglia normale, una città normale, una Ilenia normale.

Ho avuto una vita sfortunata, non riesco a prendermela con me stessa.

Perché papà non c’è più? Perché mamma mi tratta così? Nonno, perché ti sei ammalato?

Non trovo risposte, mi sento vuota

Ma io non sono nata così, mi hanno svuotata!

Si sono presi tutto di me, ma non so trovare un colpevole.

Prima osservavo dalla finestra le ciminiere dell’Ilva e ho deciso che non le rivedrò mai più. Vedevo il loro fumo salire al cielo, da assassino silenzioso.

Spostando lo sguardo ho visto lui, dentro una nuvola. Mi ha sorriso.

Sto arrivando”gli ho detto, “basta un salto!”.

Addio nonni

Addio mamma

Addio Taranto

Vado da papà

1 comment

  1. Serena Miccoli May 24, 2013 12:29 am 

    Bravo Francesco :)

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